giovedì 16 luglio 2020

Interludio - Matrioska


Matrioska è uno spettacolo che sviluppai nel 2011 e che per me fu uno spartiacque. O meglio, fu LO spartiacque.


Da qualche anno mi baloccavo nel pensare a spettacoli che funzionassero attraverso degli schemi, delle sequenze, come il già noto La Ronde, nel quale sei attori (A, B, C, D, E, F) improvvisano una sequenza fissa di scene secondo questo criterio:

A-B

B-C

C-D

D-E

E-F

F-A

Se tutto ciò vi suona come qualcosa di già sentito è perché si ispira a una commedia di Arthur Schnitzler.

Mi piaceva l'idea di creare spettacoli diversi ogni volta che alteravo le combinazioni tra gli attori o il loro ordine, il cui risultato finale fosse un qualcosa più grande della somma delle singole scene.

Per circa una decina d'anni avevo lavorato a questo genere di spettacoli di improvvisazione e probabilmente per questo avevo il migliore know-how sulla piazza.


E poi arrivò Matrioska.


Lo spunto per far nascere questo spettacolo venne da un gioco di ruolo, FIASCO, nel quale, in una delle sue espansioni, veniva proposto uno schema chiamato "Il Malinconico Duo Finlandese".



Il fatto che l'idea mi fosse stata suggerita da un gioco chiamato FIASCO avrebbe dovuto farmi suonare da subito qualche campanello d’allarme, ma ero giovane, avventato e quello schema era troppo appetitoso e si presentava così:

quattro attori e quindici scene così ripartite.


A-D

A-B

B-A

B-C

C-B

C-D

D-C

D-C

C-D

C-B

B-C

B-A

A-B

D-A


E in più c'era anche un quinto attore che aveva il compito di entrare nella parte centrale dello spettacolo per fare precipitare gli eventi.

Tutto ciò vi pare complicato? Un po' lo è.

Vi pare inutilmente complicato? Vi sbagliate: il risultato finale vale tutta la fatica che fate per imparare lo schema.

I miei compagni di scena ed io eravamo un gruppo esperto ed affiatato e la sfida non ci spaventava. Eravamo tutti ferrati in drammaturgia e sapevano come cavare fuori una buona storia da una scena.


Sull'onda dell’entusiasmo nato dal lavoro di preparazione a questo spettacolo organizzammo un cartellone di nostri spettacoli di improvvisazione nel quale Matrioska, il nostro nuovo format, avrebbe sia aperto che chiuso la rassegna.


Così la prima serata andammo in scena tutti baldanzosi.

Matrioska fu un flop.




O meglio, tutto andò come doveva andare: c'erano le storie, c'erano i conflitti, c’erano le battute che non distruggevano la storia, solo che il risultato finale era di una noia mortale.

Al termine eravamo tutti delusi e perplessi perché non capivamo la ragione per cui le cose non fossero andate come previsto, soprattutto perché avevamo fatto tutto a dovere. Sapevamo però che da lì a cinque settimane avremmo dovuto replicare lo spettacolo e non c’erano alternative: o si trovava la maniera di farlo funzionare a dovere o lo si sarebbe dovuto annullare.


Fin dalle prime battute ci risultò chiaro che costruire sul momento una storia di quattordici scene richiedeva uno sforzo eccessivo, nel senso che se la nostra attenzione si fosse eccessivamente concentrata nella costruzione della storia, non ci sarebbero restate energie per “stare nel momento” e tenere lo spettacolo vitale. In sala prove la fatica era gestibile, ma davanti a un pubblico diventava eccessiva.

Come risolvere questo problema?

La soluzione richiese un atto di fede: ci si sarebbe focalizzati solo sul reagire onestamente a ciò che avrebbe fatto il compagno in scena, tralasciando ogni velleità drammaturgica.

Ogni scena sarebbe stata a sé stante e al pubblico spettava il compito di costruire la storia.

Chiaramente con l’accumularsi delle scene noi attori avremmo via via acquisito sempre più informazioni sulla situazione che si andava creando e i nostri personaggi avrebbero reagito alla luce di queste informazioni. Avevamo condiviso un unico principio: non bisognava preoccuparsi più di “portare avanti” una storia, ma bisognava reagire a ciò che succedeva mostrando agli spettatori qualcosa di vitale e autentico.

Avevo fiducia che, se noi fossimo “stati nel momento” avremmo coinvolto maggiormente gli spettatori che avrebbero connesso da soli le scene e si sarebbero costruiti la loro storia. Nessuno, noi per primi, avrebbe potuto sapere come si sarebbe sviluppata la storia che andavamo ad improvvisare: lo avremmo scoperto solo alla fine, quando, una volta terminato lo spettacolo, ci fossimo voltati indietro a guardare cosa avevamo costruito.

L’idea era quella di mettere in atto un’interpolazione, cioè creare lo stesso meccanismo che è alla base del fumetto. Infatti cos’è il fumetto se non una successione di disegni e frasi uniti in una storia dal lettore? Il “fumetto” avviene negli spazi tra le vignette: è lì che il lettore crea la “storia”.

Matrioska avrebbe funzionato sullo stesso principio, rappresentando quindici scene che il pubblico avrebbe connesso tra loro. Noi avremmo dovuto solo preoccuparci dell’autenticità delle nostre reazioni.


Così, dopo cinque settimane di prove ed errori andammo in scena e lo spettacolo funzionò. Anzi, alla fine riuscimmo a creare una delle storie più appassionanti e toccanti mai da noi improvvisate, nella quale si narravano le vicende di una famiglia di profughi afghani che si trovava a vivere le difficoltà dell’integrazione, ma anche i vantaggi che questa integrazione portava.


Successivamente abbiamo continuato a portare in scena Matrioska, via via perfezionandolo e ottenendo ogni volta delle storie che sarebbe valsa la pena trascrivere, tanto erano perfette.


Al di là del piacere di aver creato uno spettacolo che funzionava, Matrioska lasciò un’eredità pesante: ci eravamo formati a creare una storia solo evitando di costruirla deliberatamente. Avevamo scoperto che per fare Drammaturgia, quando si improvvisa, bisogna dimenticarsi di essa. E che quindi raccontare una storia non era una priorità dell’Improvvisazione come avevamo sempre creduto.


Ho sempre avuto una pessima scrittura.


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