giovedì 13 agosto 2020

Un inamissibile pensiero

 


Comincio questo post riprendendo l’esempio, fatto qualche giorno fa, dell’attore che, lasciato solo in scena, si rivolge ai compagni chiedendo loro di entrare per aiutarlo.

Se questo accadesse durante uno spettacolo di prosa, credo che gli spettatori non sarebbero ben disposti verso quella compagnia che commette un errore così madornale come quello di mancare un’entrata per portare avanti la scena. Penserebbero di assistere ad uno spettacolo di scarsa qualità, non provato a sufficienza prima di essere messo in scena. Si avrebbe la sgradevole impressione di assistere ad un errore dell’attore, che sarebbe dovuto entrare in un determinato punto della storia, invece non lo fa e ci si trova davanti ad un “buco” che, per giunta, sta venendo rattoppato malissimo.


Il pubblico di uno spettacolo di improvvisazione, invece, probabilmente apprezzerà ed applaudirà quel momento. Magari potrebbe arrivare al punto di considerarlo uno dei momenti più divertenti della serata. 

Che ridere quando quello era rimasto solo e chiamava i compagni perché entrassero ad aiutarlo!”

Eppure in tutt'e due le situazioni gli spettatori sono stati posti davanti davanti alla Verità e al Dolore che, come sappiamo, generano il Comico. Magari in tutte e due le situazioni hanno riso ed applaudito. Ma dopo, a spettacolo terminato, la stessa situazione verrà letta in due maniere differenti. Dove sta la differenza?

A mio parere in quello che cerca il pubblico.

Chi assiste ad uno spettacolo di prosa vuole assistere a una finzione dichiarata, vuole volontariamente sospendere l’incredulità, vuole che gli si racconti una storia che lo emozioni e che lo faccia riflettere. Vuole condividere un rito con gli altri spettatori. Magari vuole la catarsi, vuole essere purificato, vuole essere esorcizzato e gli attori sono incaricati di questo rito.

Chi assiste ad uno spettacolo di improvvisazione, invece, vuole vedere degli attori che si prendono dei rischi al posto suo. Vuole essere esorcizzato sì, ma dalla Paura e quegli attori che senza rete si stanno mettendo a rischio davanti a lui, saranno quelli che metteranno in scena le sue paure per liberarlo, anche solo per pochi istanti.

Per questo la Seconda Storia è così importante: perché quella è la storia che parla di Rischio, di Audacia, di Sfida. La Prima Storia è ciò che permette alla Seconda di svilupparsi.

Se ci si focalizza troppo sulla Prima Storia e si fa finta che la Seconda non esista, si entra in un confronto col Teatro di Prosa dal quale l’Improvvisazione non può che uscirne perdente. L’improvvisazione, abbiamo visto, non la si può ridurre al fare bene la Prima Storia, ma è la somma, se non la moltiplicazione, della Prima e della Seconda Storia.

Avanzo ora un’ipotesi inamissibile.

L’ipotesi che l’Improvvisazione sia un “Facciamo che io ero...” per adulti, che non sia Teatro, ma Gioco e che sia un Gioco fatto davanti a degli spettatori.

Un gioco dove degli adulti si divertono a creare storie, impersonandone i personaggi e inventando sul momento le situazioni e i dialoghi; né più né meno di quello che fanno i bambini.

Non parlo dei format competitivi, come il Match di Improvvisazione Teatrale, il Theatresport, il Comedysport, il Maestro Theatre e così via: parlo dell’Improvvisazione Teatrale in toto.

Reiner Knizia, uno dei più importanti progettisti di giochi vivente ha detto che “in un gioco l’obiettivo è vincere, ma è l’obbiettivo ad essere importante, non la vittoria. Ora, parafrasando Knizia, se diciamo che nell’improvvisazione l’obiettivo è raccontare una storia, allora ciò che è importante è l’azione di raccontarla, non la storia che viene raccontata.


Reiner Knizia e alcuni dei suoi giochi

Quando giochiamo, la vittoria non è importante quanto la sfida che ci porta a quella vittoria; perdere può lasciare l’amaro in bocca, ma vincere 60-0 una partita a calcetto contro una squadra di bambini di quattro anni non dà soddisfazione alcuna.

Analogamente vedere che i nostri sforzi ci hanno portato a creare delle storie senza senso non ci appaga: vogliamo metterci alla prova raccontando una storia che ci appassioni. Allora è qui che studiare Drammaturgia acquista senso, perché ci insegna come raccontare al meglio la nostra storia. Non ho bisogno di studiare le aperture per giocare a scacchi, ma se entrambi i giocatori lo hanno fatto la loro sfida sarà più avvincente!


A questo punto quella che sarebbe la Prima Storia non è che un pretesto, una scusa: ciò che appassiona il pubblico, inconsapevolmente, sta nella Seconda Storia, in quella che mostra se si sta giocando bene.

Perché alla fine, Sì E… altro non è che un’euristica che ci permette di giocare al meglio il gioco dell’improvvisazione, mentre Sì Ma… porta a quegli atteggiamenti che rovinano i momenti di gioco, come il tizio che mette il broncio perché non gli passate la palla o che pretende di verificare sul regolamento la correttezza di ogni mossa che lo mette in svantaggio togliendovi ogni gioia del giocare.


Qualcuno obietterà che l’improvvisazione è Teatro perché viene fatta davanti a un pubblico (e spesso in un teatro).

Vero, l’improvvisazione teatrale viene fatta davanti a degli spettatori, ma questo non basta a definirla “teatro”: anche il calcio viene fatto spesso davanti a un pubblico, no?

Se pensiamo all’improvvisazione come a un “gioco” con degli spettatori, forse ci avviciniamo alla realtà più di quanto lo sia il volerla includere a tutti i costi nel Teatro.

Però è attorno alla presenza degli spettatori che si genera l'equivoco che l'Improvvisazione sia Teatro e non Gioco.

La presenza degli spettatori altera l’esperienza del giocare e il rapporto tra i giocatori e il gioco, specialmente riferita all’improvvisazione teatrale.

La storia che si raccontano i bambini quando giocano a “Facciamo che io ero...” non è una storia fatta per un pubblico, è una storia fatta per loro stessi: sono essi stessi il proprio pubblico. Noi adulti che li guardiamo siamo catturati dalle abilità che mettono in campo, non tanto dalla storia che raccontano. E spesso i bambini sono talmente presi che ignorano completamente che ci siano degli adulti che li osservano.

Per gli adulti il discorso è diverso.

Se sono presenti degli spettatori, magari chi improvvisa pensa che essi siano venuti a vederli avendo delle aspettative: sono lì per loro, bisogna dare loro qualcosa all’altezza di quelle aspettative. Ma la valutazione sulla qualità del giocare è sempre appannaggio di chi gioca, chi non è dentro al gioco non è nella posizione di esprimere un parere. I bambini che giocano a "Facciamo che io ero" sono talmente immedesimati nel gioco che gli adulti manco li vedono, sanno che ci sono, ma in quel momento il gioco è più importante.

Invece, è qui che scatta la trappola per chi fa improvvisazione: si dà più importanza agli spettatori che a chi sta improvvisando con noi. Si crede che chi ci sta guardando sia più importante dei nostri compagni di gioco.

Così si passa dal giocare all’esibirsi, dal Gioco al Teatro.

A questo punto, una volta che si ritengono gli spettatori più importanti di chi sta giocando con noi, è un attimo arrivare a pensare che per soddisfare le aspettative di questi sia necessario confezionare per loro una grande Prima Storia.

Così la Prima Storia non è più un mezzo per giocare, ma è diventato il fine. La Seconda Storia è solo un intralcio, una cosa da ignorare o cercare di nascondere, una cosa da guitti.

Invece, cosa c'è di male nel pensare che il pubblico dell’Improvvisazione Teatrale sia lì per guardarci semplicemente giocare, per vederci mettere alla prova le nostre abilità, dare il meglio di noi stessi, cercare di superare i nostri limiti?

Ogni quattro anni milioni di persone in tutto il mondo si mettono davanti alla televisione per vedere i Mondiali di Calcio: non sarà Teatro, ok, ma non è la stessa cosa che offre l’Improvvisazione Teatrale? Quei milioni di persone, in fondo, non stanno col fiato sospeso a guardare atleti che giocano?

Se ciò che interessa fosse solo il risultato, basterebbe aspettare che venga comunicato, come per le analisi del sangue. No, quello che quei milioni di persone vogliono vedere è la lotta per arrivare a quel risultato. È quello che li incolla davanti alla televisione.

Del 2-0 dato dall'Italia alla Polonia in Semifinale nei Mondiali dell'82 non ricordo nulla, ma il 3-2 col Brasile della partita che lo ha preceduto, nella quale per passare il turno potevamo solo vincere perché il pareggio non bastava e il Brasile era dato da tutti come favorito, me lo ricordo tutto.

 

Bei ricordi...


La Prima Storia è importante, ma è la Seconda Storia quella che porta le persone a vedere e fare Improvvisazione. 

Le persone si iscrivono ai nostri corsi perché vogliono divertirsi e stare bene le une con le altre. Poi noi insegniamo loro teatro per farle giocare meglio, ma non siamo Teatro. O meglio: non siamo solo Teatro. 

L’amara verità è che per improvvisare non è necessario studiare teatro, ma se non si è disponibili a giocare non si improvvisa. Conoscere il Teatro a noi serve perché ci dà gli strumenti per improvvisare meglio, non perché altrimenti non si improvvisa. Sapere usare corpo e voce, sapere come si sta su un palco, conoscere la drammaturgia e la regia sono ottime cose, ma se pensiamo che queste siano l’Improvvisazione Teatrale e non la voglia e la disponibilità a giocare è come pensare che il “Calcio” sia solo quello della Serie A e non quello che giocano i bambini in cortile. Sono due cose differenti, è vero, ma sempre di Calcio si tratta.

Noi improvvisatori ci ostiniamo a volerci misurare a tutti i costi con il Teatro, un po’ perché abbiamo quel “teatrale” dopo “improvvisazione” che ci condiziona e un po’ perché viviamo in una cultura dove Gioco è una parola poco seria, mentre Teatro ci permette di darci un tono.

Vogliamo essere presi seriamente da chi ci sta attorno e per questo aspiriamo alla sacralità e alla trascendenza del Teatro, preferendo non vedere che quelle stessa sacralità e trascendenza ci sono uguali anche nel Gioco.

Invece di scervellarci nel cercare di trovare forme e modalità che portino l’Improvvisazione ad assomigliare il più possibile a uno spettacolo su testo, non sarebbe più utile considerare ogni format di improvvisazione come un mettersi alla prova con un “Facciamo che io ero” ogni volta diverso?

Vedere i format di Improvvisazione sotto questa luce vi sembra così strano? Pensate allora a quanti modi diversi di giocare con una palla ci sono...


3 commenti:

  1. Ottimo, grazie mille per la riflessione. Questa volta mi richiede anche meditazione. Grazie Paolo.

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  2. Ciao Paolo!
    Ho letto con piacere.
    Mi viene in mente questa osservazione: è molto bello pensare all'improvvisazione come a un gioco fatto con la meravigliosa leggerezza dell'infanzia, come dici tu...
    MA
    questo gioco avviene comunque su un palco, quindi, volenti o nolenti, la "sacralità" teatrale dovuta al fatto che siamo alcuni gradini sopra all'audience (anche solo in senso figurato) su un palco, rimane, non scompare.
    Il fatto del gioco non mette attori e audience sullo stesso piano. Io ho sempre pensato che quando sali su un palco (o comunque c'è la gente che tace per vederti, privilegio mica da poco) diventi "più grande di te stesso". Non sei più il tuo io quotidiano, rappresenti comunque qualcosa e ciò ti dà una responsabilità.
    Ho sempre pensato che se una persona (o un gruppo) si mette/mettono anche solo un centimetro più su di me, su un palco, in una situazione di privilegio...ci deve essere un motivo. Devono sapere far qualcosa che io non so fare, altrimenti si stanno solo strappando rilevanza a tradimento.
    Quindi: come si conciliano "campo da calcio" e palco? O meglio: è davvero possibile conciliarli? O diventa meglio separare le due cose, usare l'improvvisazione come gioco/metodo per contesti solo formativi, senza farci spettacoli...e usare l'improvvisazione più orientata al teatro per fare gli spettacoli?
    Io credo che l'apoteosi e quel quid in più che può dare l'improvvisazione sia quello che avevo visto fare ai Bugiardini con "Blue": i giochi erano il copione. Nella trama, riconoscevo i meccanismi di alcuni giochi, che erano il linguaggio segreto con cui si intendevano gli attori. Ecco, lavorare a una cosa composita come quella, credo sia il massimo.
    Spero di essere riuscita a spiegarmi bene.
    Uno dei casini primi e principali dell'improvvisazione italiana e non, oserei dire (mio parere) è che...paradossalmente...nessuno sa cos'è. Nessuno la sa definire. Sembra di muoversi nella bruma di Londra, perché non si sa bene dove si tende, quali sono le mete, gli obiettivi.
    Divertirsi? Perché se si divertono gli improvvisatori è garantito il successo e si diverte anche il pubblico? Io non credo in questo. Mi è sembrato di vedere, addirittura, che capita i due elementi (divertimento degli attori e riuscita dello spettacolo) siano inversamente proporzionali.
    Si vuole mostrare un'abilità? Teniamo conto, però, che aprire e chiudere la porta nello stesso punto è un'esaltazione da Nobel solo per la troupe...al pubblico frega una cippa, anzi, a veder far su dei casini per cui un momento gli attori sono a Londra, un momento a Pecorara e un momento uno è in una piscina dove prima un altro scalava con la piccozza...gli viene anche un filo il nervoso. Almeno, credo.
    Fai molto bene a ricercare chiarezza e a far indagare in questo senso.
    Ovviamente, tutto ciò è mia impressione, di sicuro non ho alcuna pretesa universalistica.
    Grazie per il tuo lavoro.

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