giovedì 30 luglio 2020

Esercizi cui dare fuoco: il Toast





Su sollecitazione del collega e amico Michele Imparato, scrivo oggi dell'esercizio di Improvvisazione che maggiormente detesto:

il TOAST.

Per chi non lo conosce l'esercizio consiste nel mettere 5-6 improvvisatori in riga e chinati. A un comando chi di questi attori vuole si alza e inizia una scena con quelli che si sono alzati assieme a lui; se l'attore è da solo, farà un monologo.
A un comando successivo, questi che si sono alzati si abbassano in maniera da essere tutti chinati, ad un terzo comando chi vuole si alza per iniziare una nuova scena e così via. Quando si alzano gli stessi attori che si erano già alzati in una scena precedente, riprendono quella stessa scena e la sviluppano.

Questo esercizio fu importato in Italia verso la fine degli anni '90 da una tournée di Amatori all'estero e fu una boccata d'ossigeno per un mondo che stava precipitando verso "alla maniera del Codice Fiscale. Quattro minuti" .
Da allora è un must.

L'esercizio di per sé non sarebbe male: costringe gli attori a prendere decisioni rapide e a installare rapidamente delle scene. Oddio: ci sono esercizi migliori per ottenere gli stessi risultati, ma va bene.

Il problema è che  il Toast è diventato da subito uno degli strumenti più efficaci per insegnare il Sì,Ma..., per mostrare agli allievi come non farsi coinvolgere e risolvere tutto con un po' di faccia tosta.

Infatti quello che più diverte gli spettatori nell'assistere all'esercizio, non è tanto quello che gli attori creano in scena , ma lo spaesamento di questi a ogni cambio scena, quando cercano di capire quale scena devono continuare oppure non si accorgono di un compagno e riprendono una scena sbagliata. Ancora una volta non ci sarebbe nulla di male in tutto questo, se gli attori si preoccupassero della qualità delle scene e queste non fossero, nei fatti,solo un riempitivo per il successivo cambio scena. Purtroppo quello che gli improvvisatori scoprono fin da subito è che la parte dell'esercizio che diverte maggiormente il pubblico è il momento del cambio, non quello che accade tra un cambio e l'altro e, in virtù di ciò, l'improvvisazione nel Toast diventa solo un riempitivo tra un cambio scena e l'altro.

Per questa ragione l'esercizio non insegna a lavorare sulle scene, ma solo ad avere faccia tosta a sufficienza per fare fronte agli inevitabili sbagli, sbagli che non diventano mai rotture della realtà capaci di aprire inaspettati sviluppi narrativi, ma solo pretesti per far ridere il pubblico.

Una delle conseguenze di questo è che il Toast, al di là delle apparenze, non è un esercizio che richieda chissà quale abilità, anzi, per come viene fatto, è la negazione stessa della necessità di frequentare un corso di Improvvisazione: chiunque può fare questo esercizio per come viene fatto. Per farlo bene, cioè con delle belle scene che vengono interrotte e poi riprese e dove gli attori integrano in maniera organica gli errori e la confusione, ci vorrebbe un corso di Improvvisazione. Ma in realtà è proprio nei corsi di improvvisazione che si insegna a farlo nel peggior modo possibile, così siamo punto a capo. 

Mi si dirà "Ma quanto sei pesante: alla fine il Toast è quello che è: un esercizio leggero, che fa divertire chi lo fa e chi assiste, che carica di energia lo spettacolo."
Vero, rispondo, ma questo non esime chi lo fa dal dare il massimo.

"Fare i cialtroni" in scena è difficilissimo, richiede un sacco di preparazione e solo in pochi ci riescono veramente bene.
"Essere cialtroni" in scena invece è molto più facile e per molti attori è l'unica maniera di improvvisare.

Formare gli attori a fare bene il Toast, insegnando loro a restare nel presente in ogni istante, a riprendere con prontezza le scene ad ogni cambio, a non buttare via il lavoro fatto durante le scene, a tenere separata la leggerezza dalla cialtroneria renderebbe l'esercizio veramente utile.

Fatto come viene fatto oggi lo mette al primo al primo posto della mia personale classifica degli Esercizi Cui Dare Fuoco

lunedì 27 luglio 2020

Absurderie




Poco più di un anno fa, trovandomi Roma per lavoro, sono incappato in uno spettacolo d'improvvisazione diverso dagli altri, uno di quegli spettacoli che non è detto che piacciano a tutti, ma che sicuramente porta l'improvvisazione in territori inesplorati: ABSURDERIE.

ABSURDERIE è uno spettacolo/workshop/esplorazione che apprezzo, ma non conosco bene, quindi, per evitare di scrivere sciocchezze, oggi mi faccio da parte e lascio che sia il suo ideatore - Daniele Marcori - a parlarvene.

Buona lettura e buona visione se ne avrete occasione.


Come è nato Absurderie (mi raccomando, si legge Absurderie).

Tanti e tanti anni fa mi capitò fra le mani un testo teatrale in libreria di un certo Ionesco e si intitolava La cantatrice calva. Ero alla ricerca di testi un po’ alternativi per mettere in scena uno spettacolo con una compagnia amatoriale e per qualche motivo sia per la brevità del testo che per le poche e criptiche descrizioni della trama del libro, decisi che quello era l’acquisto che faceva per me.

Una volta a casa lo lessi avidamente e una volta finito, dentro di me echeggiava una frase molto chiara: “Cosa ho letto? Non c’ho capito niente.”

Quindi lo rilessi una seconda volta e come per magia cominciai a ridere di ogni frase, ad ogni pagina, come un matto.

Continuavo a dirmi che non avevo capito niente, ma stavolta avevo riso a crepapelle. Farmi ridere non era semplice e non lo è tutt’ora. Eppure quel libercolo di quel tale Ionesco, roba degli anni ‘50, mi aveva scardinato completamente.

Teatro dell’assurdo. Lo rilessi più volte e a ogni lettura ecco che cominciava a emergere il senso di quello che forse si annidava dentro a quei dialoghi strampalati. Altro che non sense, altro che assurdo. C’era molto sense e molta normale quotidianità in quel libro.

Molto più reale e vero di tanti libri “normali” che avevo letto fino a quel giorno.

Il teatro verità dovevano chiamarlo i critici. La sintesi della verità.

Parole cariche di significato, piene di drammi e di tragicomicità. C’era solo da entrare in un percorso di comprensione altro; un po’ come quei quadri 3D che all’inizio sono incomprensibili e poi sfocando gli occhi riesci ad accedere alla vera forma.

Avevo amato Dalì, Picasso, ma soprattutto di Magritte ero rimasto affascinato e in Ionesco rivedevo, in forma di scrittura, quella forza comunicativa di mettere insieme cose normali in una miscela anormale, distopica, improbabile.

Da improvvisatore avevo sempre avuto una predilezione per i colpi di scena, per i punti di vista alterati, per la fobia di non ripetere mai una battuta detta, uno schema già visto e così avevo perfezionato tecniche per evitare i clichet. Ciò mi garantiva una certa originalità nelle mie proposte in scena.

Certo, per i miei colleghi poteva essere spiazzante non potersi riposare mai andando in automatico, una volta che si paventava all’orizzonte un ricorrente schema di gioco, ma alla fine penso che si siano divertiti di più e di sicuro l'alto livello di rischio, gli spettatori lo avvertivano.

Poi a distanza di anni capita che la mia vita incontra un baratro, una serie di pozzi neri che si susseguono anno dopo anno: 2 lutti, perdita del lavoro, un figlio non nato, uno disabile, la separazione con l’allontanamento da casa e dulcis in fundo un tumorello niente male.

Che fare? Qualcosa è scattato fra un incubo e l’altro e ho cominciato a raccontare frammenti vissuti cercando una chiave surreale e deformata, in modo da disegnare delle spirali che potessero dissipare come serpentine tutta la carica dolorosa dei fatti che in realtà stavano dentro a questi microatti assurdi.

Alla prima lettura quello che arriva è la parte buffa, poi rileggendoli si scopre che non c’è solo la parte buffa e rileggendoli ancora ecco che si incontra il dramma.

Ogni cosa che mi capitava io la scrivevo e ne usciva fuori una scena grottesca. Molto spesso facevo fatica anche io a credere fosse realmente accaduto quello che raccontavo, ma la cosa stupefacente era che non c’era niente di inventato, se non il caleidoscopio che usavo per colorare ogni storia.

In pochi mesi avevo già scritto una trentina di pezzi e mi sono detto che ci avrei potuto scrivere un libro. Così feci. Absurderie. Amazon dava una soluzione molto pratica e indolore. Costo zero, guadagni minimi, ma costo zero. Era quello che mi serviva. Non mi interessava guadagnare, ma pubblicarlo senza spendere.

Fatto il libro, dopo poco, una mia collega e amica mi chiama e mi dice: “troppo forte! Dobbiamo farci uno spettacolo.”.

La mia risposta fu che stesse sopravvalutando quel libretto. Stiamo con i piedi per terra. Mi vergognavo solo a pensarci che avessi potuto scrivere un testo teatrale.



Dopo due giorni,dopo aver riletto due volte ancora il mio libro, chiamai la mia collega e le dissi: “Facciamolo!”.

E siamo partiti. Giulia Bornacin è riuscita a leggere come se fosse me e dava le interpretazioni giuste, nel modo giusto, esattamente come io avrei potuto immaginarle se non di più.

Ho fatto il sito, la pagina facebook e siamo partiti in tournee. Incredibile. Già più di 10 date nel primo anno di vita. Sembrava che le cose andassero da sole.

Per la prima volta stavo credendo in un mio progetto e per quanto potessi ogni tanto perdere la fiducia, il meccanismo di autosabotaggio stavolta non ha funzionato e sono nati dei laboratori, un secondo libro e il secondo spettacolo ancora più intenso del primo.

Aumentano gli interessati e nasce La Piccola Bottega dell’Assurdo con l’intento di un laboratorio permanente per produrre nuovi testi, idee e portarle in scena.

Ma non è solo di teatro che la Piccola Bottega dell’Assurdo si vuole occupare. È un movimento che raccoglie riflessioni, punti di vista, concept grafici, orientamenti innovativi.

Iniziamo una piccola rassegna mensile e poi arriva Covid19. Beh, assurdo, no?




Saltano due spettacoli a marzo, e poi ad aprile e maggio con laboratori annessi. Un bel colpo di scena del cavolo, però.

Passano 7 giorni e sento ancora una forza che mi porta a investire tempo ed energie per lavorare online e produrre video a distanza. Cominciamo a vederci ogni 3 giorni e butto giù un paio di puntate di Benvenuti in Absurdistan, con me e Giulia ci sono anche Monia Cappello e Umberto Mascia.

Ognuno inizia a creare contenuti e io mi concentro sulle maledette tecnologie per andare in diretta streaming e via discorrendo. 6 puntate che riscuotono interesse e spiazzano gli utenti.

Andiamo avanti e poi a fine maggio chiudiamo l’esperienza online. Basta. Vogliamo tornare dal vivo, ma questo lockdown è servito per capire che Absurderie sono anche video e ci piace pure farli. Sì adesso la Piccola Bottega dell’Assurdo sarà un contenitore di atti dal vivo e contenuti video.

Ci piace.

Adesso oltre a me e a Giulia c’è un cast fisso e due gruppi di attori/improvvisatori che si stanno perfezionando per entrare in sintonia con il progetto.

Tutto è ancora molto imperfetto, ma gli ingranaggi si stanno oliando e, senza forzare, fra un po’ tutto andrà a regime e a quel punto romperò lo schema per un nuovo ordine; insomma c’è da lavorare tanto.

Absurderie WiFi sarà il prossimo libro e così si chiamerà anche il prossimo spettacolo. Preferirei stavolta non vivere altri drammi e usare quello che ho, che è già abbastanza. Così per dire, ecco.

Daniele

p.s. dicono che siamo un prodotto di nicchia. La mia risposta ogni volta è : "Bene!!!" (citazione del Gaggini)



giovedì 23 luglio 2020

Sì Ma... per esperti II - Categorie





Il Sì Ma... permette a chi fa improvvisazione di andare in scena e portare a casa dei risultati senza farsi coinvolgere da ciò che accade, senza mettersi a rischio e allo stesso tempo dando a tutti, compagni e spettatori, l'illusione di stare veramente improvvisando.

Questa maniera di intendere l'Improvvisazione in Italia è diffusa punto che intere fortune sono state costruite sul restare estranei a ciò che accade in scena, dando l'idea che invece ci si stia mettendo in gioco. E in conseguenza di ciò, questa finta improvvisazione, che si preoccupa più della Performance che del Processo, è quello che viene maggiormente messo in scena ed insegnato. 

Invece è necessario intervenire tempestivamente sugli allievi, incoraggiandoli a usare l'euristica del Sì E... al posto di quella del Sì Ma... per permettere loro di improvvisare veramente, prendendosi dei rischi senza escogitare scappatoie per venire a patti con le proprie paure. Solo così si possono ottenere attori capaci di stare nel momento e di farsi cambiare da ciò che accade loro intorno.

Paradossalmente capita spesso di emozionarsi di più per uno spettacolo di allievi o di improvvisatori inesperti che in uno spettacolo fatto con attori più "blasonati". Questi ultimi, improvvisatori più anziani, di età e di palco - come lo sono io tra l'altro - spesso hanno un problema che nasce proprio dalla loro esperienza. Infatti spessodefiniamo "esperienza" quell'insieme di pratiche, abilità e competenze usate per non mettersi a rischio veramente. 

Un improvvisatore esperto è spesso un improvvisatore spaventato, che si è costruito la propria "borsa degli attrezzi" per venire a patti con la propria paura e che, per questo, è abilissimo a non farsi coinvolgere.

Mi ricordo di un improvvisatore che, mentre facevamo uno spettacolo assieme, entrò in scena riproponendo personaggio, battute e dinamiche che avevo già visto quindici anni prima, quando assistetti al primo spettacolo di improvvisazione della mia vita.
Tra l'altro, questo improvvisatore, forzò nella scena dinamiche, caratteristiche del personaggio e battute che non servivano solo per ottenere l'applauso del pubblico. Negli anni si era costruito un repertorio che poi usava nei vari spettacoli.
Questa era la sua "esperienza".
 
Qui ho parlato di come la battuta possa essere una forma di difesa dall'ignoto, oggi voglio parlare di un'altra forma che il Sì Ma... può prendere: le Categorie.

Improvvisare in una determinata categoria è una cosa utilissima: mettere dei paletti per incanalare il flusso libero della creatività permette di scoprire territori altrimenti impensabili.

Improvvisare in rima, alla maniera di Shakespeare o di Pirandello, senza parole o quant'altro è una via utilissima per fare scoperte che, restando nel nostro quotidiano, l'improvvisatore non riuscirebbe a fare. E - cosa utilissima -quelle scoperte non rimarranno rinchiuse nella rappresentazione della singola categoria: non è possibile pretendere che una scoperta resti limitata a quell'ambiente. Sarebbe come pretendere che la scoperta della lavorazione dei metalli fosse rimasta relegata alla sola costruzione di scudi, spade e aratri!
Analogamente, per esempio, si possono far uscire gli improvvisatori dalla palude del linguaggio quotidiano imponendo loro di fare scene usando un linguaggio shakesperiano. Riuscire a sostenere conversazioni ricche di metafore implica una maggiore capacità di connettere elementi  tra loro  distanti, un'abilità questa che si riverbera in altri aspetti dell'improvvisazione.
Per esempio nel sapere collegare tra loro scene diverse, al fine di costruire una narrazione, fino ad uscire dal recinto dell'improvvisazione tout cour migliorando la capacità di fare il reframing di una situazione. 



Il problema con le categorie viene quando da "mezzo" diventano "fine".

Fino a quando la rima, per esempio, è mezzo, allora il fallimento non è un problema. Anzi, la rima è un ottimo strumento per introdurre il tema del Fallimento nell'Improvvisazione. Ma quando gli allievi sentono la valutazione nello sguardo dell'insegnante e dei compagni mentre stanno improvvisando in rima, quando passa - anche solo in maniera implicita - il messaggio che chi sa fare bene le rime allora è un improvvisatore "più bravo" degli altri, allora si inizia a cercare degli escamotage per semplificarsi la vita e fare "bene" la categoria. 
A questo punto focalizzarsi sulla categoria come fine e non come mezzo fa sì che l'improvvisare in rima da Processo diventi Performance e questo porta l'improvvisatore nel campo del Sì Ma...

Lo stesso discorso può essere applicato ad ogni categoria, come quella di improvvisare sostituendo i numeri alle parole o seguire lo stile di un determinato autore: se diventa un fine e non più un mezzo allora è Sì Ma...

Questa naturale tendenza degli improvvisatori a proteggersi è accentuata dall'abitudine degli insegnanti e delle scuole di proporre workshop specifici su varie categorie, solitamente riconducibili ad autori e stili teatrali.

In questo non c'è nulla di male, ma ciò che andrebbe chiarito è il fine (ancora una volta!): si vuole che i propri allievi si cimentino con un certo autore perché ci si aspettano ricadute positive a prescindere o perché li si vuole "bravi" in quello che il docente insegnerà loro?

Se la categoria è il fine e non il mezzo allora bisogna innanzitutto dichiararlo fin da subito e poi lavorare veramente bene perché lo spettacolo - o quello che ne sarà - non diventi un mero esercizio di calligrafia. Se invece è un mezzo per arrivare ad altro, allora bisogna lavorare attentamente per evitare che non diventi un fine.

E ancora: perché, invece di chiamare un docente a insegnare una determinata categoria, non si stimolano gli allievi a interpretarsela da soli? Non ci sarebbe più varietà e diversità?
Capisco che i docenti devono guadagnare per mettere in tavola la cena, ma cosa accadrebbe se su uno stesso autore ci fossero più visioni che si confrontano tra loro?

Qualche tempo fa ho assistito ad alcuni attori che hanno messo in scena una improvvisazione, a detta loro, alla maniera della sceneggiata napoletana. Questa sedicente "sceneggiata" altro non era che una sequenza di luoghi comuni su Napoli e i napoletani, con battute vecchie di venticinque anni (non è un'iperbole: intendo veramente dire che le aveva create un mio compagno di squadra in un Match di Improvvisazione Teatrale nel 1995. Essere dentro l'improvvisazione da quasi trent'anni è sia un vantaggio che una condanna) e nulla che potesse fare pensare alla sceneggiata.

Ora: di chi è la colpa di quell'agghiacciante scena? Sicuramente degli improvvisatori che l'hanno fatta, i quali hanno mascherato la loro paura di mettersi veramente in gioco dietro ad una cortina fumogena di sciocchezze che facevano ridere il pubblico.
Direi però anche dei loro insegnanti, i quali non sono stati in grado di trasmettere loro un insegnamento della categoria che non andasse oltre il cliché.
Ma anche - e sopratutto - dell'ambiente dove questo gruppo agisce e prospera: quel cliché del 1995 lo avranno pur dovuto imparare da qualcuno, no? Pensateci: uno fa qualcosa di spontaneo in scena e ciò che ha fatto dopo venticinque anni viene ancora riproposto: non male per una disciplina dove tutto dovrebbe essere creato sul momento.
Alla fine, nell'ambiente dove quel gruppo agisce, le categorie probabilmente sono una maniera per non interagire e non mettersi a rischio. 
Un elegante Sì Ma...



Sia chiaro: il problema non sono le categorie in sé, ma il perché vengono fatte e insegnate. Se non si ha chiaro se ciò che si insegna sia un mezzo o un fine, allora è il momento di porsi delle domande prima di fare altri danni. 

lunedì 20 luglio 2020

Sì, Ma... per esperti I: Battutari e Costruttori


Quello del Sì, Ma..., a mio parere, è il tema cardine dell'Improvvisazione teatrale, così oggi continuo il discorso andando ad esaminare alcuni aspetti più nel dettaglio .

Due allieve stanno improvvisando una scena dove, a un comando del docente, dovranno raccogliere uno dei biglietti sparsi per terra e pronunciare la battuta lì scritta. A loro insaputa sono frasi tratte dalle opere di Shakespeare. Una delle delle due, ricevuto il comando, raccoglie il bigliettino e legge: "Ma chi sei tu che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?" (Giulietta E Romeo) L'altra risponde con una battuta, gli spettatori ridono e le attrici ritornano a fare quello che già stavano facendo nella scena. Ora tocca a quest'ultima raccogliere e leggere il biglietto: "La gelosia è un mostro dagli occhi verdi che dileggia la carne di cui si nutre." (Otello) La battuta cade nel vuoto e la scena prosegue come se nulla fosse accaduto.
Altra coppia, altro biglietto. Questa volta i personaggi in scena sono due fratelli, si scopre che uno, che fa l'università, copia i compiti dell'altro, che va in quinta elementare. Quest'ultimo legge il suo biglietto: "Non sei senza ambizione, ma ti manca la crudeltà che deve accompagnarla." (Macbeth) Risposta: "Faccio Pedagogia." Giù risate e la scena prosegue ignorando completamente questo scambio di battute.

Non deve trarre in inganno il fatto che i protagonisti di queste scene fossero allievi: non è che con gli improvvisatori più esperti le cose cambino di molto.

La questione è che, come ho scritto qui, l'istinto di chi fa improvvisazione è quello di  proteggersi, di mantenere il controllo della situazione, perciò si tende ad annullare ciò che può minacciare la nostra sicurezza, come appunto una frase di Shakespeare inserita a sorpresa in una scena.
A volte semplicemente questi input li si ignora bellamente - è impressionante quanto gli improvvisatori possano essere sordi a ciò che accade attorno a loro - altre volte vengono liquidati con una battuta per poi proseguire.

Quest'ultimo modo di fare - cioè liquidare con una battuta queste rotture della realtà della scena, per poi continuare come se niente fosse - spesso è percepito come una sorta di cifra stilistica, un indicatore della bravura dell'improvvisatore.

Se volete riconoscere questi sedicenti improvvisatori basta proporre loro di fare una scena dove, a un certo punto, uno di loro inizierà una frase che uno spettatore dovrà concludere con un oggetto o esprimendo un concetto che ha pensato in precedenza.

Attore 1: "Se la metti così allora io..." indica uno spettatore
Spettatore 1: "Ti rubo il porcospino"
Attore 1: "Se la metti così alloa io ti rubo il porcospino!"
Il pubblico ride.
Attore 2: "Ah, sì? Allora io..." indica un altro spettatore
Spettatore 2: "Vado a Shangai."
Attore 2: "Ah, sì? Allora io vado a Shangai!"
Il pubblico ride.
E così via.

Quante volte ci è toccato assistere a scene simili? E quante volte ci è stato ricordato quanto questi attori fossero superbrassimistraformidabili?
La questione è questa: sono veramente bravi oppure hanno solo una gran faccia tosta e in realtà non stanno interagendo tra loro?
Questi attori fenomenali stanno veramente abbracciando l'ignoto o stanno disperatamente rifiutandosi di esplorare cosa sarebbe accaduto se quel porcospino fosse stato veramente importante?

Non è  forse che quelli che a noi sono stati presentati come bravi, sono in realtà quelli meno capaci? 

Quando ero allievo (e c'era ancora la Lira) era molto apprezzato quello che veniva chiamato il "gioco di rimessa": l'attendere che l'altro facesse una battuta forte per poi neutralizzarla facendo un gag che demoliva tutto, ma guadagnava l'applauso del pubblico. Questo non è "spiazza il tuo compagno" (di cui ho parlato qui) perché non mira a spiazzare per creare non si sa bene cosa, ma è un vero e proprio riallineamento della scena, che va a richiudere quella breccia verso l'ignoto che si era creata. Non c'è bravura in questo, solo disperazione: la disperazione di chi vuole mantenere il controllo.
Purtroppo questo comportamento, contrario a ciò che dovrebbe essere l'improvvisazione, veniva premiato e ben più di un improvvisatore ha fatto carriera e ancora oggi viene riconosciuto come esempio da seguire grazie a questo.

Uno dei Sì Ma... più utilizzati dagli improvvisatori esperti è il nascondere dietro una battuta il loro non farsi coinvolgere da ciò che accade in scena.

La loro non è bravura, è disperazione.

E la loro disperazione li ha portati ad elevare ad arte questo loro rifiuto di interagire con l'altro.

Quelli più rinomati, più famosi ed acclamati hanno elevato questa capacità ad un punto tale da arrivare a non aprire quasi mai le scene e la loro strategia sta nell'aspettare dietro le quinte il momento opportuno per entrare e fare la loro battuta che farà spellare le mani al pubblico dopo aver demolito tutto ciò che i loro copagni avevano costruito. 

A loro la gloria, agli altri i cocci: che bravi sono questi battutari!


Moltissimi improvvisatori vengono formati a improvvisare così e i luoghi più tristi dell'improvvisazione sono quelli dove, a quasi trent'anni di distanza, ancora vige la differenza tra Battutari e Costruttoriclassificazione non ufficiale che però testimonia il pessimo livello di quella parte dell'improvvisazione italiana.

Battutaro è il temine con cui, in quegli ambienti, viene definito l'improvvisatore che fa ridere il pubblico a suon di gag, il terrmine Costruttore è invece il premio di consolazione per chi non è capace di fare ridere il pubblico come i Battutari. Il vero termine per i Costruttori sarebbe Incapace o Inadatto, ma non si può fare perchè poi queste persone lascerebbero i corsi. Ma questo non sarebbe un problema per quelle scuole, se non fosse che assieme a loro lascerebbero i corsi anche le quote che questi mensilmente versano.

La divisione in Battutari e Costruttori è proprio la cartina tornasole di quel Sì Ma... di qui parlavo nell'articolo sopra citato. Se le persone accettassero quella frattura che si viene a creare quando si altera l'equilibrio della scena e non fossero abilissime a cancellare tutto con una battuta, questa divisione non avrebbe più ragion d'essere.

Infatti se durante l'improvvisazione si "rimanesse nel momento" e si reagisse onestamente a ciò che accade in scena, questa suddivisione verrebbe meno: tutti starebbero nel Processo e basta. 
Suddividere gli improvvisatori in Battutari e Costruttori è segno che persiste un modo malsano di approcciarsi all'Improvvisazione, basato esclusivamente sulla Performance, che premia chi non si fa coinvolgere da ciò che accade in scena, ma che razionalmente valuta ciò che accade per scegliersi il momento migliore in cui intervenire.

Guardate i Battutari per quello che sono: delle persone spaventate, incapaci di entrare pienamente in relazione con gli altri.

E i Costruttori? Nient'altro che vittime inconsapevoli di un sistema che premia i più scarsi. Un Costruttore non è un bravo improvvisatore: è un fallito che non ha il coraggio di ammettere con se stesso che non è capace di stare al passo richiesto dalla sua scuola. Se avesse dell'amor proprio lascerebbe il gruppo e andrebbe dove lo possono apprezzare e formare davvero, ma preferiscono essere i lacchè dei loro compagni Battutari invece di mettersi in gioco veramente.

Accettare il ruolo del Costruttore è fare un Sì, Ma... verso se stessi.

giovedì 16 luglio 2020

Interludio - Matrioska


Matrioska è uno spettacolo che sviluppai nel 2011 e che per me fu uno spartiacque. O meglio, fu LO spartiacque.


Da qualche anno mi baloccavo nel pensare a spettacoli che funzionassero attraverso degli schemi, delle sequenze, come il già noto La Ronde, nel quale sei attori (A, B, C, D, E, F) improvvisano una sequenza fissa di scene secondo questo criterio:

A-B

B-C

C-D

D-E

E-F

F-A

Se tutto ciò vi suona come qualcosa di già sentito è perché si ispira a una commedia di Arthur Schnitzler.

Mi piaceva l'idea di creare spettacoli diversi ogni volta che alteravo le combinazioni tra gli attori o il loro ordine, il cui risultato finale fosse un qualcosa più grande della somma delle singole scene.

Per circa una decina d'anni avevo lavorato a questo genere di spettacoli di improvvisazione e probabilmente per questo avevo il migliore know-how sulla piazza.


E poi arrivò Matrioska.


Lo spunto per far nascere questo spettacolo venne da un gioco di ruolo, FIASCO, nel quale, in una delle sue espansioni, veniva proposto uno schema chiamato "Il Malinconico Duo Finlandese".



Il fatto che l'idea mi fosse stata suggerita da un gioco chiamato FIASCO avrebbe dovuto farmi suonare da subito qualche campanello d’allarme, ma ero giovane, avventato e quello schema era troppo appetitoso e si presentava così:

quattro attori e quindici scene così ripartite.


A-D

A-B

B-A

B-C

C-B

C-D

D-C

D-C

C-D

C-B

B-C

B-A

A-B

D-A


E in più c'era anche un quinto attore che aveva il compito di entrare nella parte centrale dello spettacolo per fare precipitare gli eventi.

Tutto ciò vi pare complicato? Un po' lo è.

Vi pare inutilmente complicato? Vi sbagliate: il risultato finale vale tutta la fatica che fate per imparare lo schema.

I miei compagni di scena ed io eravamo un gruppo esperto ed affiatato e la sfida non ci spaventava. Eravamo tutti ferrati in drammaturgia e sapevano come cavare fuori una buona storia da una scena.


Sull'onda dell’entusiasmo nato dal lavoro di preparazione a questo spettacolo organizzammo un cartellone di nostri spettacoli di improvvisazione nel quale Matrioska, il nostro nuovo format, avrebbe sia aperto che chiuso la rassegna.


Così la prima serata andammo in scena tutti baldanzosi.

Matrioska fu un flop.




O meglio, tutto andò come doveva andare: c'erano le storie, c'erano i conflitti, c’erano le battute che non distruggevano la storia, solo che il risultato finale era di una noia mortale.

Al termine eravamo tutti delusi e perplessi perché non capivamo la ragione per cui le cose non fossero andate come previsto, soprattutto perché avevamo fatto tutto a dovere. Sapevamo però che da lì a cinque settimane avremmo dovuto replicare lo spettacolo e non c’erano alternative: o si trovava la maniera di farlo funzionare a dovere o lo si sarebbe dovuto annullare.


Fin dalle prime battute ci risultò chiaro che costruire sul momento una storia di quattordici scene richiedeva uno sforzo eccessivo, nel senso che se la nostra attenzione si fosse eccessivamente concentrata nella costruzione della storia, non ci sarebbero restate energie per “stare nel momento” e tenere lo spettacolo vitale. In sala prove la fatica era gestibile, ma davanti a un pubblico diventava eccessiva.

Come risolvere questo problema?

La soluzione richiese un atto di fede: ci si sarebbe focalizzati solo sul reagire onestamente a ciò che avrebbe fatto il compagno in scena, tralasciando ogni velleità drammaturgica.

Ogni scena sarebbe stata a sé stante e al pubblico spettava il compito di costruire la storia.

Chiaramente con l’accumularsi delle scene noi attori avremmo via via acquisito sempre più informazioni sulla situazione che si andava creando e i nostri personaggi avrebbero reagito alla luce di queste informazioni. Avevamo condiviso un unico principio: non bisognava preoccuparsi più di “portare avanti” una storia, ma bisognava reagire a ciò che succedeva mostrando agli spettatori qualcosa di vitale e autentico.

Avevo fiducia che, se noi fossimo “stati nel momento” avremmo coinvolto maggiormente gli spettatori che avrebbero connesso da soli le scene e si sarebbero costruiti la loro storia. Nessuno, noi per primi, avrebbe potuto sapere come si sarebbe sviluppata la storia che andavamo ad improvvisare: lo avremmo scoperto solo alla fine, quando, una volta terminato lo spettacolo, ci fossimo voltati indietro a guardare cosa avevamo costruito.

L’idea era quella di mettere in atto un’interpolazione, cioè creare lo stesso meccanismo che è alla base del fumetto. Infatti cos’è il fumetto se non una successione di disegni e frasi uniti in una storia dal lettore? Il “fumetto” avviene negli spazi tra le vignette: è lì che il lettore crea la “storia”.

Matrioska avrebbe funzionato sullo stesso principio, rappresentando quindici scene che il pubblico avrebbe connesso tra loro. Noi avremmo dovuto solo preoccuparci dell’autenticità delle nostre reazioni.


Così, dopo cinque settimane di prove ed errori andammo in scena e lo spettacolo funzionò. Anzi, alla fine riuscimmo a creare una delle storie più appassionanti e toccanti mai da noi improvvisate, nella quale si narravano le vicende di una famiglia di profughi afghani che si trovava a vivere le difficoltà dell’integrazione, ma anche i vantaggi che questa integrazione portava.


Successivamente abbiamo continuato a portare in scena Matrioska, via via perfezionandolo e ottenendo ogni volta delle storie che sarebbe valsa la pena trascrivere, tanto erano perfette.


Al di là del piacere di aver creato uno spettacolo che funzionava, Matrioska lasciò un’eredità pesante: ci eravamo formati a creare una storia solo evitando di costruirla deliberatamente. Avevamo scoperto che per fare Drammaturgia, quando si improvvisa, bisogna dimenticarsi di essa. E che quindi raccontare una storia non era una priorità dell’Improvvisazione come avevamo sempre creduto.


Ho sempre avuto una pessima scrittura.


lunedì 13 luglio 2020

Sì, Ma...




Avendo scritto finora del Sì,E... e delle sue declinazioni è giunto il momento di parlare della sua antitesi: il No.

Il No è l'affermazione del proprio Ego: il bambino impara presto a dire No e lo dice con un certo piacere proprio per affermare la propria individualità. Poi si cresce e quel No ripetuto assume significati più controversi.

Infatti, come scritto da Keith Johnstone, chi tendenzialmente è portato a dire a una proposta riceve gratificazione dalle avventure che vive, mentre chi dice No è gratificato dal controllo che mantiene sulla situazione. Johnstone aggiunge, elemento cruciale, che con la pratica si può portare chi dice No a dire.

Infatti, chiunque abbia frequentato un corso o un workshop di improvvisazione sicuramente è stato educato a trasformare i propri No in per poter mandare avanti le scene.


In ogni caso questo dire No per mantenere il controllo è profondamente legato al nostro Ego, all'affermazione di noi stessi, alla paura dell'ignoto e perciò non si trasformano i No in solo perché lo dice un docente.


"La più antica e potente emozione umana è la paura,
e la paura più antica e potente è la paura dell'ignoto."
H.P. Lovecraft, 1890-1937

Quando parliamo di fa dire Sì E... alle persone stiamo dicendo loro di accettare quello che per loro è considerato Pericolo, di addentrarsi nell'Ignoto, di avanzare verso l’Incerto, di mettersi a rischio: tutte cose contrarie a ciò che dice il loro istinto. Infatti il loro istinto è quello di proteggersi, di dire No! e ritirarsi, ma il docente dice loro di dire e proseguire.  A questo punto, trovandosi di fronte a due comandi tra loro contraddittori, questo conflitto tra Istinto e Docente viene risolto dagli allievi applicando una nuova euristica: quella del Sì, Ma…


  • "Sei carino, simpatico, intelligente, divertente, mi fai stare bene, ma con te non mi ci metto."

  • "Lei sarebbe ottimo per questo lavoro, ma abbiamo scelto un altro candidato."

  • "Verrei da te anche ora, ma ho la macchina dal meccanico."

Sì, Ma... è un No con lo smoking. Si accetta l'offerta ricevuta, ma solo alle proprie condizioni. 

Non è un'accettazione piena e incondizionata: è una strategia per mantenere il controllo in una situazione incerta. 


La particella "ma", infatti, ha il potere di annullare tutto ciò che la precede nella frase: suona come un , ma è una negazione. Sì, Ma... è un'euristica per mantenere il controllo e non impegnarsi pienamente in ciò che si fa. È la peggiore nemica di chi fa Improvvisazione, nonché il più insidioso ostacolo verso il Sì E... 

Il Sì Ma... è il compagno maggiormente presente nella vita di chi fa improvvisazione, è una sorta di Lucignolo che costantemente ci distrae e cerca di portarci al Paese Dei Balocchi, dove tutto sembra sembra facile e a portata di mano, ma che al risveglio ci riserva amare sorprese. Ci mette a nostro agio, dandoci l'illusione di stare facendo quello che viene richiesto. Invece ci porta da tutt'altra parte, impedendo di abbandonarci a ciò che si sta facendo, senza mai farci entrare pienamente nel Processo, ma facendoci restare nella Performance; nell’illusione che si possa improvvisare seguendo le regole che ci sono state date, ma senza metterci mai veramente a rischio.

 

Il Sì Ma... è sempre presente: a volte si nasconde, altre volte ancora sembra innocuo, ma - come l'Unico Anello - il suo potere è quello di corrompere gli ignari che ne sottovalutano la potenza.


Spesso i primi ad essere soggiogati dal Sì, Ma... sono proprio i docenti. 

Da allievi è stato insegnato loro a dare la precedenza alla Performance, poi, successivamente, questo atteggiamento ha ricevuto un rinforzo, poiché essendo stati "bravi" sono diventati prima Amatori e poi Professionisti; infine si sono proposti e sono stati selezionati per insegnare.

Ma chi li ha scelti se non i loro stessi insegnanti, cioè coloro che gli hanno insegnato che l'improvvisazione è Performance?

E cosa potranno insegnare se non questo?

Ad aggravare questa situazione sta il fatto che chi gestisce e dirige le scuole di improvvisazione riceve riconoscimento e autorevolezza da altri che sposano la loro stessa visione.

Così si viene a creare una bolla di consenso su cosa sia l'Improvvisazione e su come debba essere fatta e insegnata che ha poco o  niente a che vedere con l'Improvvisazione stessa. In assenza di reali confronti che possano mettere in discussione certezze e totem, il Sì Ma... prospera e suo il principale brodo di coltura sono proprio le scuole di improvvisazione, che dovrebbero invece essere i luoghi deputati a combatterlo.

  

Il No lo si vede e lo si può combattere a viso aperto, invece il Sì Ma...  si manifesta in una miriade di atteggiamenti subdoli ed è ciò su cui un insegnante dovrebbe porre più attenzione.


Quando, specie all'apertura di un workshop, metto gli allievi in cerchio, presto molta attenzione al fatto siano disposti veramente in cerchio e non formino un'ellisse o una figura informe con bozzi e rientranze. Già la normale disposizione in cerchio tradisce i Sì, Ma... di certi allievi. 

Bisogna assicurarsi che nessuno sia fuori dal cerchio: chi è fuori deve inserirsi e chi è dentro deve concedere spazio. Il nostro corpo rivela quello che pensiamo e che proviamo: l'allievo può anche sorridere, ma se non sta nel cerchio o non sta facendo entrare un compagno questo è il segnale che non è a proprio agio.

Se ad alcuni insegnanti questo può sembrare eccessivo, li invito a rivedere i criteri che utilizzano per mettere i propri allievi in sicurezza, perché temo che abbiano qualche problema.


In ogni attività umana, infatti, ci sono una Periferia e un Centro. La Periferia è dove le idee nascono, fermentano, vengono esplorate e da lì cercano di muoversi verso il Centro, dove diventano mainstream e accettate come punto di riferimento, lasciando così spazio libero in Periferia per la nascita di nuovi stimoli, poiché senza il fermento della Periferia il Centro muore. Ogni problema nasce in Periferia e riuscire a metterlo al Centro ne riduce il potenziale distruttivo, lo depotenzia.


Questo discorso vale per le città, per le arti, per i movimenti politici e anche per le classi di un corso di improvvisazione.


Chi si pone fuori dal cerchio sta manifestando l'impulso di mantenere il controllo della situazione: bisogna far sì che il Centro lo accolga e lo accetti così come lui accetterà di essere nel Centro, Se invece si sposa l'approccio Io insegno solo ai campioni, si può già supporre che chi sta fuori dal cerchio, probabilmente sarà quello che rallenterà il gruppo.

Un'azione apparentemente insignificante come disporsi in cerchio, in realtà richiede un atto di fede da parte degli allievi. Ignorare l'importanza di questo è trascuratezza verso di loro. 


Ma il discorso non finisce qui.


Una volta disposti in cerchio gli allievi, già dai primi esercizi si può vedere chi sta lottando per mantenere il controllo: sono quelli che non mettono la dovuta energia in quello che fanno.

Anche questa scarsa convinzione nell’azione può essere considerata un Sì, Ma…

 

", faccio quello che l'insegnante mi dice, dal momento che sono qui e non posso andarmene.

Ma, visto che mi sento stupido, non mi ci impegno quanto potrei." 


Il non mettere energia, come ho scritto qui, è un segnale che l'attenzione è rivolta alle proprie paure e preoccupazioni invece che a ciò che si sta facendo. Mantenere gli allievi focalizzati su quello che stanno facendo aiuta a combattere il Sì Ma...


Il discorso sul Centro e la Periferia non si esaurisce nel disporre gli allievi in cerchio.

Il Centro è anche dove succede l'azione, dove si è più esposti, la Periferia è dove ci si sente sicuri. Il Centro è dove si viene osservati, la Periferia dove si osserva.

Ancora una volta è necessario prestare attenzione ai movimenti del gruppo: sia a chi si muove verso la Periferia per mettersi al riparo, sia a chi si lancia troppo precipitosamente al centro. Anche questi ultimi potrebbero agire secondo il Sì Ma…


"Vado subito, faccio quello che devo fare in fretta e non ci penso più".


Uno strumento diagnostico per vedere quanto gli attori siano presenti in quello che stanno facendo e quanto invece stiano accettando ma alle loro condizioni è - ancora una volta - l'osservazione della loro fisicità.

Chi non è coinvolto, chi sta facendo Sì Ma... è solitamente focalizzato nel muovere le estremità del proprio corpo: mani e braccia in primis e poi i piedi; sta "raccontando", ma non è dentro l’azione.

Invece chi è pienamente coinvolto muove tutto il corpo, specialmente il bacino: sta “facendo”, è nel pieno dell'azione.

Quindi non basta che gli allievi vadano al Centro, devono anche fare e non raccontare.


Le lezioni vanno organizzate in maniera tale che ci sia il tempo affinché tutti possano fare tutti gli esercizi, senza lasciare fuori nessuno; tutti devono osservare e tutti devono essere osservati. Questo è di cruciale importanza per combattere il Sì Ma... Se si permette a chi è più fragile, più insicuro di temporeggiare in Periferia fino a quando il tempo è scaduto si sta dando un rinforzo a tale atteggiamento. E far recuperare l'esercizio durante la lezione successiva è inutile: il clima della classe così come l'energia sarà differente, ci sarà chi, avendo già fatto l'esercizio, sarà meno coinvolto nell'assistere ad una sua ripetizione, mentre chi si troverà a farlo per la prima volta si sentirà come chi sta facendo un compito "di recupero".


Infine bisogna prestare attenzione ai pattern di chi va in scena con chi. Talvolta c'è la tendenza da parte degli allievi a prediligere l'andare in scena con chi è ritenuto "più bravo" e a schivare chi è "meno bravo". Questo è un altro Sì, Ma..., nonché un segnale che questi allievi sono più preoccupati della propria Performance che del Fai fare bella figura al tuo compagno.  Se si notano certi atteggiamenti la cosa migliore da fare è sorteggiare ogni volta chi fa gli esercizi: questo toglie a chi vuole andare in scena solo con i "bravi" la possibilità di farlo e allo stesso tempo solleva i meno "bravi" dall'imbarazzo dello stare al Centro da soli mentre i loro compagni in Periferia si guardano l'un l'altro o guardano per terra per decidere chi si deve "sacrificare".


Sia chiaro, non c'è quasi mai malizia negli atteggiamenti fin qui esposti: sono umani tentativi di proteggersi, ma è importante identificare questi comportamenti e affrontarli fin da subito, poiché - man mano che l'allievo prende dimestichezza con l'Improvvisazione - diventerà sempre più sofisticata la sua capacità di fare un Sì, Ma... al posto di un Sì E....


Ma di questo parlerò prossimamente.


Il minimo sindacale

  Quando iniziai a scrivere qui mi ripromisi che avrei scritto soltanto se avessi avuto qualcosa di intelligente da dire e non per generare ...