giovedì 23 luglio 2020

Sì Ma... per esperti II - Categorie





Il Sì Ma... permette a chi fa improvvisazione di andare in scena e portare a casa dei risultati senza farsi coinvolgere da ciò che accade, senza mettersi a rischio e allo stesso tempo dando a tutti, compagni e spettatori, l'illusione di stare veramente improvvisando.

Questa maniera di intendere l'Improvvisazione in Italia è diffusa punto che intere fortune sono state costruite sul restare estranei a ciò che accade in scena, dando l'idea che invece ci si stia mettendo in gioco. E in conseguenza di ciò, questa finta improvvisazione, che si preoccupa più della Performance che del Processo, è quello che viene maggiormente messo in scena ed insegnato. 

Invece è necessario intervenire tempestivamente sugli allievi, incoraggiandoli a usare l'euristica del Sì E... al posto di quella del Sì Ma... per permettere loro di improvvisare veramente, prendendosi dei rischi senza escogitare scappatoie per venire a patti con le proprie paure. Solo così si possono ottenere attori capaci di stare nel momento e di farsi cambiare da ciò che accade loro intorno.

Paradossalmente capita spesso di emozionarsi di più per uno spettacolo di allievi o di improvvisatori inesperti che in uno spettacolo fatto con attori più "blasonati". Questi ultimi, improvvisatori più anziani, di età e di palco - come lo sono io tra l'altro - spesso hanno un problema che nasce proprio dalla loro esperienza. Infatti spessodefiniamo "esperienza" quell'insieme di pratiche, abilità e competenze usate per non mettersi a rischio veramente. 

Un improvvisatore esperto è spesso un improvvisatore spaventato, che si è costruito la propria "borsa degli attrezzi" per venire a patti con la propria paura e che, per questo, è abilissimo a non farsi coinvolgere.

Mi ricordo di un improvvisatore che, mentre facevamo uno spettacolo assieme, entrò in scena riproponendo personaggio, battute e dinamiche che avevo già visto quindici anni prima, quando assistetti al primo spettacolo di improvvisazione della mia vita.
Tra l'altro, questo improvvisatore, forzò nella scena dinamiche, caratteristiche del personaggio e battute che non servivano solo per ottenere l'applauso del pubblico. Negli anni si era costruito un repertorio che poi usava nei vari spettacoli.
Questa era la sua "esperienza".
 
Qui ho parlato di come la battuta possa essere una forma di difesa dall'ignoto, oggi voglio parlare di un'altra forma che il Sì Ma... può prendere: le Categorie.

Improvvisare in una determinata categoria è una cosa utilissima: mettere dei paletti per incanalare il flusso libero della creatività permette di scoprire territori altrimenti impensabili.

Improvvisare in rima, alla maniera di Shakespeare o di Pirandello, senza parole o quant'altro è una via utilissima per fare scoperte che, restando nel nostro quotidiano, l'improvvisatore non riuscirebbe a fare. E - cosa utilissima -quelle scoperte non rimarranno rinchiuse nella rappresentazione della singola categoria: non è possibile pretendere che una scoperta resti limitata a quell'ambiente. Sarebbe come pretendere che la scoperta della lavorazione dei metalli fosse rimasta relegata alla sola costruzione di scudi, spade e aratri!
Analogamente, per esempio, si possono far uscire gli improvvisatori dalla palude del linguaggio quotidiano imponendo loro di fare scene usando un linguaggio shakesperiano. Riuscire a sostenere conversazioni ricche di metafore implica una maggiore capacità di connettere elementi  tra loro  distanti, un'abilità questa che si riverbera in altri aspetti dell'improvvisazione.
Per esempio nel sapere collegare tra loro scene diverse, al fine di costruire una narrazione, fino ad uscire dal recinto dell'improvvisazione tout cour migliorando la capacità di fare il reframing di una situazione. 



Il problema con le categorie viene quando da "mezzo" diventano "fine".

Fino a quando la rima, per esempio, è mezzo, allora il fallimento non è un problema. Anzi, la rima è un ottimo strumento per introdurre il tema del Fallimento nell'Improvvisazione. Ma quando gli allievi sentono la valutazione nello sguardo dell'insegnante e dei compagni mentre stanno improvvisando in rima, quando passa - anche solo in maniera implicita - il messaggio che chi sa fare bene le rime allora è un improvvisatore "più bravo" degli altri, allora si inizia a cercare degli escamotage per semplificarsi la vita e fare "bene" la categoria. 
A questo punto focalizzarsi sulla categoria come fine e non come mezzo fa sì che l'improvvisare in rima da Processo diventi Performance e questo porta l'improvvisatore nel campo del Sì Ma...

Lo stesso discorso può essere applicato ad ogni categoria, come quella di improvvisare sostituendo i numeri alle parole o seguire lo stile di un determinato autore: se diventa un fine e non più un mezzo allora è Sì Ma...

Questa naturale tendenza degli improvvisatori a proteggersi è accentuata dall'abitudine degli insegnanti e delle scuole di proporre workshop specifici su varie categorie, solitamente riconducibili ad autori e stili teatrali.

In questo non c'è nulla di male, ma ciò che andrebbe chiarito è il fine (ancora una volta!): si vuole che i propri allievi si cimentino con un certo autore perché ci si aspettano ricadute positive a prescindere o perché li si vuole "bravi" in quello che il docente insegnerà loro?

Se la categoria è il fine e non il mezzo allora bisogna innanzitutto dichiararlo fin da subito e poi lavorare veramente bene perché lo spettacolo - o quello che ne sarà - non diventi un mero esercizio di calligrafia. Se invece è un mezzo per arrivare ad altro, allora bisogna lavorare attentamente per evitare che non diventi un fine.

E ancora: perché, invece di chiamare un docente a insegnare una determinata categoria, non si stimolano gli allievi a interpretarsela da soli? Non ci sarebbe più varietà e diversità?
Capisco che i docenti devono guadagnare per mettere in tavola la cena, ma cosa accadrebbe se su uno stesso autore ci fossero più visioni che si confrontano tra loro?

Qualche tempo fa ho assistito ad alcuni attori che hanno messo in scena una improvvisazione, a detta loro, alla maniera della sceneggiata napoletana. Questa sedicente "sceneggiata" altro non era che una sequenza di luoghi comuni su Napoli e i napoletani, con battute vecchie di venticinque anni (non è un'iperbole: intendo veramente dire che le aveva create un mio compagno di squadra in un Match di Improvvisazione Teatrale nel 1995. Essere dentro l'improvvisazione da quasi trent'anni è sia un vantaggio che una condanna) e nulla che potesse fare pensare alla sceneggiata.

Ora: di chi è la colpa di quell'agghiacciante scena? Sicuramente degli improvvisatori che l'hanno fatta, i quali hanno mascherato la loro paura di mettersi veramente in gioco dietro ad una cortina fumogena di sciocchezze che facevano ridere il pubblico.
Direi però anche dei loro insegnanti, i quali non sono stati in grado di trasmettere loro un insegnamento della categoria che non andasse oltre il cliché.
Ma anche - e sopratutto - dell'ambiente dove questo gruppo agisce e prospera: quel cliché del 1995 lo avranno pur dovuto imparare da qualcuno, no? Pensateci: uno fa qualcosa di spontaneo in scena e ciò che ha fatto dopo venticinque anni viene ancora riproposto: non male per una disciplina dove tutto dovrebbe essere creato sul momento.
Alla fine, nell'ambiente dove quel gruppo agisce, le categorie probabilmente sono una maniera per non interagire e non mettersi a rischio. 
Un elegante Sì Ma...



Sia chiaro: il problema non sono le categorie in sé, ma il perché vengono fatte e insegnate. Se non si ha chiaro se ciò che si insegna sia un mezzo o un fine, allora è il momento di porsi delle domande prima di fare altri danni. 

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