lunedì 31 agosto 2020

Improvvisazione e Politica - Ancora sugli spettacoli politici

 



Il post precedente l'ho concluso chiedendomi come si potesse fare uno spettacolo politico di improvvisazione che non fosse uno pura propaganda o un dramma a tesi e che , al tempo stesso, riuscisse a mantenere la freschezza dell'improvvisazione.

Per cercare di rispondere riprendo Il Maestro Ignorante (di cui ho brevemente parlato qui) e la sua tesi sul rapporto tra spiegazione e abbrutimento.

Infatti l'abbrutimento generato a lezione dalla spiegazione e dalla volontà che l'allievo comprenda lo si può ritrovare uguale nel rapporto tra gli artisti e il loro pubblico (ed all'origine di tanta pessima arte): quando uno spettacolo vuole dare una lezione morale, significa che l'artista è salito su un piedistallo e si sente su un piano superiore rispetto agli spettatori. Paradossalmente questo artista vuole smuoverci affinché combattiamo le disuguaglianze del mondo ponendosi lui per primo in una posizione di disuguaglianza rispetto a noi.

Pur senza voler mandare un messaggio politico anche noi improvvisatori non sfuggiamo a questo paradosso.

Infatti, troppo spesso vogliamo che il pubblico comprenda la scena che stiamo facendo, che veda proprio quella storia che stiamo costruendo davanti ai suoi occhi e che tragga proprio le conclusioni che noi vogliamo fargli trarre. 

Questo è il significato più profondo di quando diciamo: "il pubblico vuole vedere storie". In verità ciò che intendiamo veramente è "io voglio che il pubblico veda la storia che ho in mente e che l'apprezzi". Io, improvvisatore, sono colui che sa cosa è meglio per il pubblico.

Questo altro non è che Volontà di Controllo unita all'Illusione di Potere.

In realtà il significato di uno spettacolo di improvvisazione, il suo messaggio, è assolutamente preterintenzionale: va al di là della volontà degli improvvisatori.

Infatti, così come ogni improvvisatore porta in scena il proprio vissuto e le proprie esperienze e le confronta con quelle dei suoi compagni in scena, allo stesso modo ciascun spettatore porta a teatro il proprio vissuto e decodificherà ciò a cui sta assistendo attraverso questa lente.

In gioco, quando si improvvisa, non ci sono solo le menti dei compagni in gioco, ma anche quelle degli spettatori. Non sottovalutiamo l'intelligenza degli spettatori: quando diciamo che dobbiamo fare risplendere i nostri compagni, in quel "nostri compagni" dobbiamo includere anche gli spettatori. Altrimenti significa che noi li consideriamo solo vacche da mungere e di loro ci interessa esclusivamente che acquistino i biglietti e tornino a vederci, stiamo cioè creando di nuovo disuguaglianza.

Se non accettiamo l'idea che, proprio mentre noi stiamo collegando tra loro concetti e idee per creare la "storia", ogni singolo spettatore stia facendo la stessa cosa creando connessioni tra ciò che vede e le proprie esperienze per farsi la sua storia, ci stiamo perdendo un pezzo. 

Quindi è inutile sforzarsi: improvvisare è stare nel momento, reagire onestamente a ciò che accade e accettare il fatto che sarà il pubblico, con la sensibilità di ogni singolo spettatore nei confronti di determinati aspetti dell'argomento trattato, a trarre da solo  un insegnamento e scoprire la morale della storia.

Quindi tutto è perduto?

Non proprio: non possiamo arrogarci il diritto di decidere quali conclusioni gli spettatori debbano trarre dai nostri spettacoli, ma il diritto su cosa e quali strumenti usare per farli arrivare ad una riflessione, sì. L'obbiettivo, ripeto, non può essere quello di "mandare un messaggio", ma quello di fare della buona improvvisazione, restando nel momento e reagendo onestamente a ciò che accade.

Sottolineo che bisogna anche sentirsi liberi di fare spettacoli di improvvisazione che non vogliano avere impegno politico alcuno: nessun altro obbiettivo al di fuori di quello di divertire il pubblico. D'altra parte però se dagli spettacoli dovessero uscire spontaneamente dei contenuti politici, allora questi vanno esplorati e non censurati.


IMPROMASK



Il mio tentativo più riuscito di fare uno spettacolo politico in grado di soddisfare i criteri precedentemente esposti è sicuramente Impromask.

L'idea venne a Mavi Gianni e me tornando da un workshop sulla maschera neutra a Monghidoro, nel 2014 o giù di lì. Avevamo maturato la consapevolezza di quanto il lavoro sulla maschera potesse essere utile agli improvvisatori e - all'ennesimo tornante - ci venne l'idea di creare un long form con le maschere.

Entrambi avevamo già avuto esperienze con l'uso della maschera e avevamo partecipato a qualche spettacolo di Commedia Dell'Arte, ma fino a quel momento non avevamo connesso l'improvvisazione teatrale, cui eravamo abituati, all'uso estensivo della maschera.

Ero a conoscenza della Trancemask, pur non avendo seguito alcun workshop avevo letto la parte che Keith Johnstone dedicata a quest'argomento nel suo libro, ma, per quanto utile e stimolante, era un percorso che non mi interessava: a me interessava maggiormente l'uso "classico" della maschera.

Per rendere Impromask uno spettacolo politico ci siamo ispirati più alla Commedia Dell'Arte che all'improvvisazione come noi la concepiamo oggi. Nel senso che ciò che mi intrigava era la maniera in cui ogni maschera della Commedia rispecchiasse una determinata classe sociale. Sia chiaro: gli attori del '500 non creavano spettacoli con intenti politici, a loro interessava intrattenere il pubblico perché, se non ci fossero riusciti, non avrebbero avuto da mangiare. Ma ho scoperto che alcune delle caratteristiche della Commedia dell'Arte possono essere usate per creare un'improvvisazione politica.

La prima cosa che prendemmo dalla Commedia dell'Arte fu la rappresentazione delle varie classi sociali attraverso le maschere. 

Eravamo consapevoli che col tempo la maniera in cui ci rapportiamo a questo tipo di rappresentazione  è radicalmente cambiata: mentre il pubblico della Commedia si riconosceva nelle varie maschere oggi, invece, nelle maschere riconosciamo il nostro vicino. Decidemmo ugualmente che in Impromask ogni maschera da noi concepita avrebbe rappresentato una classe sociale o comunque una tipologia ben conosciuta di personaggi dei nostri giorni. Magari gli spettatori non avrebbero riflettuto sulla propria posizione, ma su quello che accadeva intorno a loro probabilmente sì.

Passammo così un anno dove a lezioni sull'uso della maschera tenute da Fabio Mangolini, a cui affidammo anche la regia dello spettacolo, si affiancavano incontri  dove discutevamo tra di noi e creavamo le maschere del nostro spettacolo. Alla fine arrivammo a individuare una dozzina di maschere per noi rappresentative della nostra realtà contemporanea che andavano dall'"Immigrato" al "Marchionni" passando per figure come la "Madre", il "Pidocchio Arricchito", l'"Arrampicatrice Sociale", l'"Incazzato Sociale", il "Precario"e così via. 

Per chi non lo sapesse, uno degli elementi più importanti delle maschere è che mentre tra uno spettacolo e l'altro è possibile variare i ruoli loro assegnati, le relazioni tra le varie maschere non cambiano mai. Le maschere si distribuiscono tra di loro le gerarchie di potere e gli attori che le indossano possono solo rispettarle: possiamo fare del Precario un generale, ma la sua relazione con l'Incazzato Sociale, fosse anche questi un suo subordinato, non cambia.

Quindi Impromask ci ha permesso di presentare al pubblico l'idea che anche se le situazioni cambiano i rapporti di potere restano sempre gli stessi. Che si ambientino le storie in un ospedale, in un ufficio, in un Parlamento o chissà dove, a comandare veramente sono sempre le stesse maschere, la stessa tipologia di persone.



L'esperienza di Mangolini ci ha permesso anche di attingere ad un altro aspetto della Commedia Dell'Arte: solitamente la situazione, all'apertura di uno scenario di Commedia Dell'Arte, è quella di un equilibrio instabile che l'arrivo di uno "straniero" (spesso il Capitano) fa precipitare. Tutti cercano di trarre vantaggio dai nuovi equilibri regolando conti in sospeso, ordendo i propri complotti e finendo vittima di quelli altrui.

Impromask si apre più o meno nella stessa maniera: il pubblico stabilisce dove verrà ambientata la storia, poi gli attori creano una instabile situazione iniziale e l'arrivo di un "forestiero" la fa saltare.

Però, a differenza della Commedia dell'Arte, il finale è aperto. Le maschere improvvisano, ciascuna secondo il proprio punto di vista e i propri obbiettivi.

Sul fatto che ogni attore dovrebbe avere l'uso della maschera come parte del suo bagaglio ho già scritto qui. Mi limito a sottolineare qualche altro aspetto che aiuta a comprendere come Impromask sia uno spettacolo politico senza diventare un dramma a tesi o perdere di brio:

1- Ogni maschera è un punto di vista sul mondo.

Non c'è una maniera prestabilita di portare in scena una maschera. Una maschera è solo una scultura. Ogni attore deve trovare la chiave affinché quella scultura prenda vita e non sia solo un oggetto sul viso dell'attore. E la maschera prende vita quando l'attore riesce a capire come quella maschera respira. Nell'istante successivo in cui si comprende questo respiro, l'attore capisce come quella maschera vede il mondo. Per quanto questo sembri un discorso iniziatico, il lavoro sulla maschera è una della cose più concrete che abbia fatto nella mia esperienza teatrale. Ogni maschera agisce coerentemente con quello che è il suo punto di vista sul mondo, non lo fa per mandare un messaggio. Vedere come agisce una maschera significa vedere come agiscono determinati punti di vista. Ogni persona, anche la più malvagia, ha le sue motivazioni per agire come agisce. Le maschere ci aiutano a capire queste motivazioni, ci fanno uscire dall'illusione adolescenziale dei "buoni contro i cattivi" per permetterci di dare una sbirciata nella complessità della realtà. Solo una volta che abbiamo conosciuto i punti punti di vista dei vari personaggi possiamo dire cosa condividiamo e cosa rifiutiamo. Perciò il lavoro "politico" non è tanto nel pensare a cosa far dire o decidere alle varie maschere, ma nello stabilire a monte un punto di vista che possa far riflettere gli spettatori.

2 - Le maschere agiscono per estremi.

Nell'azione delle maschere non c'è molto spazio per le mezze misure: sono in grado di passare da un'emozione al suo opposto in un battito di ciglia. Questo non significa che non ci possono essere sfumature nelle emozioni, ma che non ci sono ambiguità. Agli spettatori è sempre chiaro ciò che in quel momento passa per la testa della maschera.

3 - La maschera non mente

O l'attore fa muovere la maschera coerentemente con il suo Punto di Vista o in un istante diventa una persona su un palco con qualcosa in faccia, la bellezza e la difficoltà del lavoro con la maschera stanno proprio in questo. Non è possibile costringere la maschera a fare qualcosa che non voglia. Si può esitare solo se la maschera esita, tergiversare solo se la maschera tergiversa. Questo vuole dire che quando s'indossa la maschera l'azione è continua.

Il fatto che le maschere costringano gli attori ad agire senza tergiversare e che agiscano per estremi fa sì che le scene con le maschere siano sempre appassionanti. In scena le maschere sono sempre alla ricerca della Felicità o in fuga dalla Morte, quando non stanno facendo tutte e due le cose contemporaneamente.




Alla luce di quanto esposto penso di poter affermare che Impromask soddisfa le condizioni che avevo posto in apertura di questo articolo:

1 - Non è uno spettacolo di propaganda o un dramma a tesi.

Quello che viene mostrato agli spettatori è il modo in cui le dinamiche del potere si ripresentino sempre uguali anche se i contesti cambiano. L'uso delle maschere da un lato aiuta a identificare i ruoli e dall'altro semplifica tali dinamiche e le rende più fruibili.

2 - La freschezza dell'improvvisazione viene mantenuta.

Non c'è un canovaccio prefissato. La prima parte dello spettacolo è pensata proprio per fare precipitare la situazione lasciando gli attori liberi di esplorarla. Chiaramente sono costretti all'interno delle maschere, ma questa costrizione è palese.


Il fine di Impromask non è quello di dire agli spettatori chi sono i buoni e i cattivi di una storia e di dare loro una morale. Il fine è fare della buona improvvisazione utilizzando le maschere. Saranno poi gli spettatori a confrontare ciò  che è accaduto in scena con il proprio vissuto e a trarre le dovute conclusioni, se vogliono.

Quello che volevamo fare all'origine era esplorare cosa accade quando si fa improvvisazione indossando delle maschere. Il criterio che abbiamo usato per decidere quali nuove maschere creare, cioè quello di rifarci a figure archetipali della società contemporanea, hanno reso Impromask uno spettacolo "politico", ma avremmo anche potuto decidere altrimenti.

Quindi ritengo assolutamente possibile realizzare uno spettacolo di improvvisazione "politico" che non sia propaganda o un dramma a tesi.

Anzi vi invito a farlo, a crearlo, anche se non siete interessati alla Politica, perché uno spettacolo simile pone una serie di sfide che, una volta superate, vi aiuteranno a capire meglio come funziona l'improvvisazione. Non tanto nei suoi aspetti "politici", ma in quelli pratici, non rispetto a cosa funziona o non funziona in scena, ma rispetto a cosa faccia funzionare o meno una scena

Provateci. 



giovedì 27 agosto 2020

Improvvisazione e Politica - Gli Spettacoli di Improvvisazione Politici

 




La questione dell'Emancipazione di cui ho parlato nell'ultimo post, mi avvicina a un discorso spinoso: il rapporto tra l'Improvvisazione e la Politica.

In questo e nei prossimi post cercherò di spiegare qual è il mio pensiero al riguardo, cosa si sta facendo e cosa si potrebbe fare e cosa sarebbe meglio evitare.  

Questo è un argomento vastissimo, che ha un sacco di sfaccettature e rispetto al quale ognuno ha un'esperienza diversa. Quindi per trattare la questione suddividerò il rapporto tra Improvvisazione e Politica in tre parti.

  •  spettacoli d'improvvisazione politici.
  •  l'uso politico dell'improvvisazione.
  •  l'impatto politico che ha l'improvvisazione.

Chiaramente è difficile stabilire dove finisce un aspetto e dove inizia l'altro perché sono diverse manifestazioni dello stesso fenomeno.

Visto che in questi anni la parola Politica ha acquisito connotazioni negative, come se fosse una cosa da evitare o di cui vergognarsi, prima di proseguire sono necessari due chiarimenti.

Il primo è il significato di Politico.



Il termine "politico" entra nella lingua italiana attorno al'200, quando più o meno inizia l'Età Comunale. Viene dal latino politicus, che a sua volta viene dal greco politikos, che contiene la radice polis, città, ma intesa come prodotto della cultura Classica, prendendo Atene come riferimento. Città sì, ma città-stato.
Da polis viene polites, cittadino, coi suoi diritti e suoi doveri, diverso dallo schiavo e dallo straniero. Da polites, politikos: tutto ciò che appartiene ai cittadini. E poiché la città coincideva con lo Stato, politikos divenne ciò che riguarda lo Stato.

Quindi, in una Democrazia, Politica non dovrebbe essere una brutta parola, ma una delle più alte.

Questo non sarà il primo degli excursus storici: se non si sa da dove si viene si è condannati a vivere in un eterno presente e Politica e Improvvisazione sono quasi da sempre intrecciate tra loro a doppio filo. 

Il secondo chiarimento è che

Politico e Partitico sono due parole diverse.



Partitico riguarda partiti e fazioni, Politico riguarda l'insieme dei cittadini e dello Stato. Attenzione perché spesso chi dice che non si deve fare Politica intende dire che non si devono fare discorsi partitici, solitamente di quelli a lui avversi.
In questo e nei successivi post parlerò di Politica, cercando di tenere fuori il più possibile discorsi partitici.

Fatto ciò cominciamo.

SPETTACOLI POLITICI 
DI IMPROVVISAZIONE TEATRALE

Questo caso riguarda un qualsiasi spettacolo di improvvisazione - o magari anche una semplice scena - che voglia mandare un messaggio preciso, magari prendendo un tema politico specifico ed esplorandolo attraverso l'improvvisazione. Per fare un esempio, come si fanno spettacoli che hanno come tema l'Amore, l'Amicizia e il Viaggiare possono fare spettacoli incentrati sul Nucleare, sui Migranti, sul Cambiamento Climatico. 

Noto che in Italia siamo abbastanza restii a fare entrare tematiche politiche nelle nostre improvvisazioni. C'è una sorta di pudore o forse il timore di esporsi, non so, però mediamente le improvvisazioni a cui assisto sono quasi sempre politicamente corrette anche se talvolta possono prendere  una piega  di una volgarità allucinante.

Ricordo quando, qualche anno fa, vidi a Sirolo una lunga scena fatta da attori tedeschi che verteva tutta sul tema del dovere di ospitare dei rifugiati. Il giorno dopo chiesi se nei loro spettacoli, a Berlino, fosse frequente questo tema e loro, un po' perplessi, mi risposero che certamente! 

Era quello che stava accadendo attorno a loro, come sarebbe stato possibile tenere tutto ciò  fuori dall'improvvisazione?

Invece normalmente quello a cui assisto nell'improvvisazione italiana sono sempre situazioni "controllate": c'è una sorta di barriera che, per esempio, ci impedisce di pensare di iniziare una scena in hot-spot per rifugiati o di pensare che i due personaggi in scena possano essere un bracciante e un caporale.

Non dico che siamo costretti a farlo, dico che quegli attori tedeschi, a Sirolo, avevano sicuramente un'opinione diversa dalla nostra su quali argomenti tenere fuori dalle scene e quali trattare.

Forse in Italia i nostri spettacoli sono politici proprio perché tendiamo a non discutere di certi argomenti.

Forse non lo facciamo perché non ci sentiamo all'altezza di commentare certe situazioni, o forse perché pensiamo che si tratti di satira e che non sia possibile improvvisare della buona satira.

O forse perché sentiamo che certe situazioni sono così cariche di tragedie e dolore che preferiamo non avvicinarci per timore di offendere.


Cinque anni fa mi trovai a leggere il post su Facebook di un improvvisatore parigino. Raccontava di come si fosse trovato, assieme ai suoi compagni, ad avere in cartellone un Maestro Theatre proprio il  giorno successivo agli attacchi di Parigi del 13 Novembre 2015. Sulle prime avevano pensato di annullare la data, ma poi ci avevano riflettuto su, decidendo che, invece, la risposta giusta era quella di portare in scena quello spettacolo.

All'inizio avevano cercato di tenere fuori dalla scena quello che era appena successo, di ignorarlo, di fare ridere gli spettatori perché non pensassero alla tragedia appena avvenuta e si distraessero. Ma poi, man mano che lo spettacolo andava avanti, la realtà entrò sempre più prepotentemente in ciò che stavano facendo e la serata si concluse, con il suo Maestro proclamato che esibiva tra le lacrime la "banconota- trofeo" mentre tutti - attori, staff e pubblico - piangevano.

Questo post mi colpì molto e mi fece capire che la rimozione di certi argomenti non è risolutiva. Non è che se noi facciamo finta che non esistano determinati problemi quelli si risolvono: forse dovremmo correre qualche rischio in più ed onorare quelle storie, consapevoli che si può ridere di tutto ma non con tutti. E che magari gli spettatori hanno bisogno di vedere certi argomenti portati in scena. Sicuramente non solo quelli, ma anche quelli.


Bisogna dire che gli spettacoli apertamente schierati hanno due enormi limiti:

1 - Noi facciamo Improvvisazione, non Agit-Prop.




Il nostro compito è stare nel presente e fare reagire autenticamente i nostri personaggi a ciò che accade loro attorno, non è quello di promuovere un ideale o un partito. Chiaramente ciascuno di noi porta in scena quello che è, le proprie convinzioni e le proprie passioni, ma un conto è portare se stessi altra cosa è fare un comizio politico. Che poi magari gli spettatori erano venuti per distrarsi...

Se si sta nel momento, allora non c'è spazio nella mente per la propaganda, per i comizi. Pensare al comizio mentre si improvvisa è un po' come preoccuparsi del Viaggio Dell'Eroe: ci tiene lontani dallo stare nel momento.

2 - Se vuoi mandare un messaggio scrivi una lettera.



Poche cose mi annoiano come le storie che vogliono mandarmi un messaggio a tutti costi.

Chi viene a vedere l'improvvisazione viene a vederci prendere dei rischi, come ho spiegato qui, non a sorbirsi una lezione non richiesta sulla tutela della foresta pluviale o sulle nozze gay. Se tali tematiche escono spontaneamente, benissimo, esploratele, ma non forzatele perché volete "mandare un messaggio".

David Mamet, nel suo libro I Tre Usi Del Coltello, tuona contro il Dramma a tesi, che definisce meravigliosamente come "il melodramma depurato dell'elemento invenzione".

Noi improvvisatori purtroppo di drammi a tesi ne facciamo un sacco anche quando non vogliamo fare spettacoli politici.

Infatti, sempre secondo Mamet, il dramma a tesi parte da un quesito, tipo "Come si risolve il problema dei maltrattamenti famigliari?" dando allo spettatore la possibilità di vagliare le diverse opzioni per poi far prendere al protagonista la scelta giusta e offrire così allo spettatore la gratificazione di poter dire "L'avevo detto io! Lo sapevo che anche gli omosessuali, i neri, gli ebrei, le donne erano persone. E guarda un po', le mie intuizioni si sono rivelate esatte."

Insomma, sempre secondo Mamet, "Mentre il melodramma offre un po' di angoscia in assenza di pericolo reale, il dramma a tesi offre indignazione."



Quindi alla luce di questi due limiti, come si può usare l'improvvisazione per fare uno spettacolo politico, però rimanendo nel momento, evitando il dramma a tesi ed essendo consapevoli che "Il dramma non ha bisogno di influenzare il comportamento della gente. Esiste uno strumento fantastico e molto, molto efficiente, che fa cambiare atteggiamento alle persone e gli fa vedere il mondo in una maniera nuova. Si chiama pistola." (sempre Mamet)? 

lunedì 24 agosto 2020

Il Maestro Ignorante

 



Qualche giorno fa ho posto alcune questioni su come insegnare improvvisazione senza catechizzare e su come rendere più attiva quella folla di improvvisatori che definiamo Amatori per sbloccarne il potenziale inespresso.

Tali questioni sono direttamente legate alla natura di com'è organizzata l'improvvisazione in Italia, un'organizzazione che comporta sia vantaggi che svantaggi.

Sicuramente un vantaggio è quello di fornire una formazione, solitamente triennale, che copre a tutto tondo gli aspetti legati all'improvvisazione e questo aspetto non va sottovalutato o sminuito, oltre ad offrire - attraverso raduni, festival e raduni - una vasta e variegata opportunità di ulteriore formazione.

Lo svantaggio è quello di creare orde di attori sì formati, ma ancora legati a doppio filo alla propria scuola: gli Amatori.

A prima vista quella degli Amatori è una situazione win-win.

Le scuole di improvvisazione si garantiscono un bacino di attori che, pur avendo terminato i corsi, continuando a seguire ulteriori corsi, workshop e partecipando a titolo gratuito agli spettacoli, fornisce un contributo sostanziale ai bilanci di tali associazioni. Dall'altra parte, gli Amatori hanno, invece, la possibilità di ricevere formazione a un prezzo calmierato e di partecipare a spettacoli, soddisfacendo così la propria passione senza eccessivo impegno.

Però questa situazione fa anche sì che questi Amatori non percepiscano se stessi come attori formati, ma continuino a vedersi come allievi, come "pulcini bagnati" bisognosi della mamma e incapaci di usare in autonomia le competenze apprese.

Sia chiaro: la Formazione deve essere continua in ogni campo dell'esperienza umana e nessuno può credere di non avere più bisogno di apprendere cose nuove, specialmente nell'Improvvisazione. 

Ma il caso degli Amatori è diverso. Qui parliamo di persone che, per esempio, pur avendo ricevuto una formazione continuativa di magari cinque-sei anni, arricchita da stages e laboratori, non si ritiene ancora all'altezza di immaginare un proprio format di improvvisazione o di proporre un workshop ad altri improvvisatori.

Senza dilungarmi troppo, vi rimando a questo interessante post di Davide Scarafile, che magari alcuni di voi già conoscono, e che tratta in maniera approfondita la questione.

Per carità, questa situazione non è limitata al solo mondo dell'improvvisazione, David Mamet nel saggio I Tre Usi Del Coltello punta il dito sugli attori usciti dalle scuole di teatro e a suo parere afflitti dalla stessa sindrome, ma questo è il nostro mondo e a noi tocca intervenire.

David Mamet

Penso che la parola chiave che a tutt'oggi manca all'Improvvisazione italiana e che invece la completerebbe sia emancipazione, cioè la capacità di far uscire le persone da uno stato di sudditanza.

Paradossalmente l'improvvisazione è un potentissimo strumento emancipativo: toglie l'attore dalla schiavitù del testo, l'atto creativo dalla censura, annulla differenze di genere, di età, di cultura.

Solo che il sistema che si è creato negli anni è un sistema che invece di emancipare, tende ad assoggettare, insegnando implicitamente che per improvvisare bisogna essere "bravi" e che gli allievi "bravi" difficilmente lo saranno; ci sono troppe cose da sapere: meccanismi comici, drammaturgia, regia, uso della voce, uso del corpo, eccetera. Ma anche se le padroneggiassero, ci sarebbero ancora quelli "bravi" che volano in cieli più alti dei loro, quindi quello che veramente si impara è che non si è mai pronti. O almeno Tu non sei mai pronto abbastanza.


A questo punto, per ribaltare il tavolo, mi rivolgo al filosofo Jacques Rancière e al suo Il Maestro Ignorante.

Questo è un libro parecchio denso che parla di pedagogia, politica ed emancipazione e che si presta bene ad analizzare le difficoltà di insegnare improvvisazione.

Jacques Rancière

Il libro parte dall'esperienza reale di tale Jacotot che, ai primi dell'800, si trovò a dover insegnare Francese a una classe di olandesi in Olanda senza che lui parlasse il fiammingo e francese i suoi allievi. Disperato, trovò un'edizione bilingue di una rivista, in fiammingo e francese e disse ai suoi allievi di imparare il testo francese servendosi della traduzione.

Con sorpresa scoprì che gli allievi avevano imparato il francese ben oltre le sue aspettative e senza che lui avesse insegnato loro alcunché.

Le molteplici conclusioni che Rancière trae da questa vicenda e dai suoi sviluppi possono tornare utili a noi che insegniamo improvvisazione.

1 - Bisogna rovesciare il sistema della spiegazione. 

Spiegare qualcosa a qualcuno significa innanzitutto dimostrargli che non può comprendere da solo. E già questo mette l'allievo in uno stato di inferiorità, mentre è chi spiega ad avere bisogno dell'incapace, non viceversa.

Per esempio quante volte ho visto spiegare come andava fatta la scena, invece di limitarsi ad analizzare quello che era stato fatto? Ho visto anche insegnanti entrare nelle scene dei loro allievi per forzarle ad andare nella direzione che loro ritenevano corretta.

2 - Apprendere e Comprendere sono due cose diverse.

Tutti possiamo apprendere da soli, lo facciamo per esempio quando impariamo a parlare: apprendere è avanzare a tastoni, dando valore alle nostre esperienze. Invece per comprendere abbiamo bisogno di qualcuno che le cose ce le spieghi.

Gli allievi potrebbero semplicemente apprendere l'improvvisazione agendola e imparando da ciò che hanno fatto, ma noi vogliamo che la comprendano. 

E per farla comprendere gliela dobbiamo spiegare.

Questo significa che stiamo accettando l'idea che sia l'intelligenza dell'insegnante a permettere la trasmissione di queste conoscenze, adattandole all'intelligenza dell'allievo e andando a verificare che questi abbia ben compreso ciò che ha appreso. Rancière definisce questo come il meccanismo dell'abbrutimento: comprendere che non si comprende se non ci viene spiegato. Attenzione a non credere che il Maestro Abbruttente sia solo quello che a scuola detestavate e che usava metodi ottocenteschi. Spesso è proprio quello che ammirate, quello che si sforza proprio perché le cose le comprendiate.

3 - Apprendere deve diventare un gioco a tre.

Gli studenti di Jacotot avevano appreso senza le sue spiegazioni, ma non senza di lui. Quindi qualcosa aveva insegnato. Non aveva insegnato loro la sua scienza, aveva insegnato "togliendosi di mezzo", lasciandoli da soli a confrontare la propria intelligenza con quella del libro. La volontà dell'insegnante non aveva più fatto coppia con la propria intelligenza,  ma con quella del libro. Con quella si erano confrontate le intelligenze e le volontà di apprendere degli allievi. Qui si era rovesciato il paradigma.

Venendo al caso nostro: bisogna superare la visione del "vi faccio fare questo esercizio così capite questo concetto" per passare a un "metto alla prova la vostra capacità con questo esercizio: cosa avete appreso?".

Non c'è bisogno di spiegare le tappe del Viaggio dell'Eroe e poi farlo fare, basta tenere gli attori nel presente mentre fanno la scena e vedere quello che esce. Poi saranno loro stessi i giudici del loro operato, senza dovere cercare l'approvazione del docente per sapere se hanno fatto bene o male.

A noi docenti spetta il compito di proporre gli esercizi e di verificare che gli allievi seguano il comando dell'esercizio, ma non spetta a noi decidere cosa l'allievo abbia appreso o meno dall'esercizio.

Ciò che va verificato è la volontà di apprendere dell'allievo, perché è quella ciò che muove tutto. 

L'esercizio diventa così un ponte: unisce allievi e insegnante, ma conserva anche una distanza. 

La prima distanza è quella tra docente e allievi: ho già parlato dei rischi di identificare alcuni insegnanti come Guru dai quali abbeverarsi per soddisfare la propria sete di sapere: cos'è questo se non un abbrutimento? Riconoscere che non si è capaci di trovare da soli le risposte, ma che bisogna affidarsi completamente a qualcuno?

L'altra distanza è quella tra l'allievo e il docente.

Se il maestro riconosce che non ha nulla da insegnare riguardo l'esercizio, quest'ultimo mantiene una distanza tra uguali intelligenze. Ciascuna agisce, verifica ciò che fa e fornisce i mezzi per verificare la sua azione. La spiegazione annulla invece questa distanza: uno non può comprendere se l'altro non va da lui a spiegare.

Ma c'è di più.

Quando si spiega si fissa una distanza tra la materia insegnata e l'allievo da istruire ed è il maestro che fissa questa distanza. Qualora questa distanza si riducesse a zero, il maestro non avrebbe più nulla da insegnare. Ma nella logica dell'abbrutimento l'Allievo non ha strumenti per quantificare questa distanza, una cosa così importante rimane appannaggio esclusivo del docente.

E questo in buona parte è ciò che tiene gli Amatori nel loro limbo: non sanno dove stia la padronanza della materia, sanno solo che devono colmare la distanza tra sé stessi e quella padronanza. Avanzano alla cieca cercando di arrivare a quella tartaruga che neppure Achille riuscì a raggiungere.

Chiaro che siano restii a mettersi a rischio: è come se si trovassero in una stanza buia le cui pareti si spostano appena pensano di avere capito dove sono.

Per emancipare gli Amatori bisogna costringerli a usare la propria intelligenza, per capirne le capacità e quindi decidere come usarle. Non è detto che debbano per forza fare sfracelli, ma prendere coscienza che sono loro stessi a determinare l'importanza di quelle pareti nella stanza buia, questo sì. 

E per farlo bisogna togliersi di mezzo: non più far comprendere, ma far apprendere. Gli improvvisatori hanno bisogno di Maestri Emancipatori: docenti che insegnino agli allievi che non hanno nulla da insegnare. Che insegnino a non avere bisogno di dipendere da persone che spieghino loro come vanno fatte le cose. Questo non significa che non ci sia bisogno dei docenti, significa che c'è bisogno di docenti che facciano sì che gli allievi apprendano grazie a loro, non attraverso di loro.

I famigerati docenti "cui dare fuoco" di cui scrissi sono la negazione di questi concetti: producono abbrutimento e se ne vantano pure. Al momento in cui scrivo la benzina è a 1,44 euro al litro.

Ovviamente nel libro c'è molto altro, ma penso che per il momento ciò che ho brevemente riassunto sia più che sufficiente. Ora bisogna vedere come questi concetti possono essere messi in pratica.

Anche perché questi stessi concetti di abbrutimento ed emancipazione possono venire estesi anche agli spettacoli.


Vi lascio con ciò  che Rancière scrive dell'improvvisazione.

"Improvvisare è, lo sappiamo, uno degli esercizi canonici dell'insegnamento universale. Ma è innanzitutto l'esercizio della virtù primaria della nostra intelligenza: la virtù poetica. L'impossibilità in cui ci troviamo di dire la verità, quand'anche la sentissimo, ci fa parlare da poeti, raccontare le avventure della nostra mente e verificare che esse siano comprese da altri avventurieri, ci fa comunicare il nostro sentire e ce lo fa vedere condiviso da altri esseri senzienti. L'improvvisazione è l'esercizio mercé il quale l'essere umano si conosce e si conferma nella propria natura di essere ragionevole, cioè di animale che "che fabbrica dei vocaboli, delle figure, dei paragoni per raccontare ciò che pensa ai suoi simili". La virtù della nostra intelligenza è meno quella di sapere che quella di fare. Sapere è nulla, fare è tutto."



giovedì 20 agosto 2020

Il Bravo Improvvisatore™

 


Dopo tutte le riflessioni fatte finora, è chiaro che non sia possibile affermare "l'improvvisazione teatrale è questo e va fatta così", ma che, essendo un Gioco, ciascuno è libero di giocare come meglio gli aggrada, fino a quando trova persone a cui piaccia giocare con lui e spettatori disposti ad andarlo a vedere.

Se accettiamo questa visione ne consegue che il mondo dell'improvvisazione è organizzato in differenti comunità, più o meno grandi, formati al loro interno da persone unite dalla stessa maniera di giocare a "facciamo che io ero" e ciò che accomuna questi gruppi sono i (pochi) principi condivisi che rendono migliore questa esperienza. Per esempio, si può improvvisare anche dicendo No ad ogni proposta, il Codice Civile non lo vieta, ma ci si diverte di più con Sì E...

A questo punto la sfida è quella di definire cosa faccia di un improvvisatore un "bravo improvvisatore".

Le opinioni su cosa renda un improvvisatore "bravo" sono essenzialmente riconducibili a due macrocategorie: quello che riesce al meglio in quella che la sua comunità di riferimento considera "buona improvvisazione" e quello che riesce a passare con disinvoltura da una di queste comunità all'altra pur non eccellendo in all'interno di nessuna.

Dovendo scegliere, personalmente propendo per la seconda categoria. Penso che per passare con disinvoltura da un ambiente all'altro sia necessario avere interiorizzato i principi comuni a tutti gli improvvisatori ed essere in grado di modularli a seconda delle persone con cui si ha a che fare. Bisogna essere in grado di adattarsi ai nuovi ambienti, ai differenti stili e fare splendere i propri compagni. In altri termini essere capaci di applicare al meglio il Sì E...

Questo tipo di improvvisatore può a prima vista non brillare particolarmente oppure può sembrare che non abbia fatto nulla di "speciale": ci ha divertito, ma non gli abbiamo visto fare nulla di particolare. In realtà la sua dote è la versatilità.

Una delle regole empiriche per riconosce questo tipo di improvvisatore è data dal fatto che vi improvvisare con loro è un piacere.

Non è che con loro di fianco fate bella figura, no: vi divertite proprio! Magari non li avevate mai visti fino a pochi minuti prima, ma in scena con loro vi siete sentiti a vostro agio e avete dato il meglio nello spettacolo.


Il dilemma a questo punto è: come ci si forma per diventare un Bravo Improvvisatore?

Partiamo dalle basi.

Secondo William Perry il rapporto del discente con la materia segue quattro fasi:

  1. Dualismo: le cose sono giuste o sbagliate, corrette o false, senza ambiguità o sfumature. La conoscenza è qualcosa di assoluto, trasmessa loro da un'autorità.
  2. Molteplicità: il discente realizza che le cose non sono così semplici. La conoscenza della materia diventa questione di opinioni e chiunque può avere il proprio punto di vista sull'argomento. Quella del docente diventa una tra le verità possibili. L'allievo a questo punto è più aperto alle opinioni diverse da quella che lui riteneva "corretta" e comincia a diventare "proprietario" del proprio apprendimento.
  3. Relativismo: non tutte le opinioni sono uguali e la conoscenza passa dall'essere una questione quantitativa a diventare una qualitativa. Non è più questione di quante cose trasmette un docente, ma la qualità delle stesse. Il docente diventa, a questo punto, un facilitatore, una guida. Questa è anche una fase frustrante perché gli allievi toccano con mano quanto ogni teoria sia imperfetta, incompleta.
  4. Impegno: i discenti capiscono che devono sposare una visione sulla quale basare le proprie conoscenze e poi perfezionarla. Da un certo punto di vista è un ritorno alla fase del dualismo, ma la scelta in questo caso è ragionata e non dogmatica.

Il momento critico per gli improvvisatori sta nel passaggio dalla fase della Relatività a quella dell'Impegno. Capita troppo facilmente che quella della Relatività diventi una palude dove rifugiarsi per evitare di assumersi la responsabilità che sposare una visione comporta. La maggior parte degli Amatori sono intrappolati in questa fase: l'impressione è quella di non essere mai pronti a sufficienza, di annegare nel mare magnum dell'improvvisazione. Si esce dalle scuole di improvvisazione con un bagaglio triennale, ma si fa fatica a fare lo scatto successivo, quello del cominciare a metterlo in pratica. Si passa così di docente in docente solo per prendere tempo oppure ci si "innamora" di un insegnante di ciò che insegna, della sua visione e questo smette di essere un modello di come rapportarsi ai contenuti per diventare una sorta di guru da seguire in maniera acritica sancendo di fatto un ritorno alla fase del dualismo.

Gli insegnanti dovrebbero prestare attenzione a questa deriva, che è dannosa per tutti. Purtroppo quando parliamo di docenti di improvvisazione parliamo di attori e gli attori sono esibizionisti per definizione. Quindi sono sensibili e vulnerabili ad allievi che pendono dalle loro labbra o che attendono trepidanti le loro performance. Talvolta mi è capitato - e mi capita ancora - di vedere docenti avere attorno a sé vere e proprie corti. Alcuni di questi docenti non facevano nulla di particolare per averle, ma il loro carisma era talmente forte che si creavano spontaneamente, altri invece le creavano e se le coltivavano scientemente, perché solleticavano il proprio ego.


Sempre alla luce delle quattro fasi indicate, partecipare a festival e raduni è essenziale per confrontarsi con insegnamenti, visioni e realtà differenti dalla propria. Ma quando ci si confronta col nuovo, bisogna prestare attenzione. 

Da un lato bisogna evitare di restare abbagliati dalle novità, di pensare che tutto ciò che si è appena appreso sia assolutamente meglio di quello che era considerato valido fino a quel momento perché insegnato nella propria scuola. 

Il Culto della Novità è una delle piaghe dell'improvvisazione italiana e fa sì che insegnanti e concetti diventino popolari in maniera acritica solo perché nuovi, senza che nessuno si fermi a riflettere sui contenuti di queste novità.

Dall'altro lato bisogna evitare di essere refrattari alle novità, alle innovazioni che vengono insegnate e che, apparentemente, entrano in contraddizione con le proprie certezze. Questo capita spesso agli allievi più inesperti, quelli ancora nella fase del Dualismo: un insegnamento che contraddice quanto detto dai propri insegnanti può venire rifiutato a priori, perché ci si appiglia a quelle poche certezze che si hanno. Però questa refrattarietà può capitare anche con improvvisatori più esperti, che magari tendono a identificarsi con la propria performance. Per costoro mettere in discussione ciò che è la propria visione dell'improvvisazione equivale a mettere in discussione ciò che sono come persone, quindi rifiutano a priori ogni novità che non si trasformi in una loro miglior performance.

Al crescere dell'esperienza, bisognerebbe cercare di apprendere sempre di più dagli insegnanti che stanno in Periferia e meno da quelli che sono nel Centro. Al Centro ci sta ciò che è mainstream, lo standard di riferimento, quello che tutti cercano; è in Periferia che sta il fermento, la novità, l'innovazione, quindi è qui che ci si apre la mente. Fosse solo per dire che non si condivide ciò che sostiene quell'insegnante.  Attenzione: non sto dicendo di snobbare gli insegnanti più conosciuti o esperti, sto dicendo di non limitarsi a questi. Se invece il vostro obbiettivo è quello di diventare "bravo" per quelli che sono gli standard di riferimento della vostra comunità, allora andate dagli insegnanti del Centro, perché sono loro quelli che hanno settato quegli standard, quindi perché accontentarsi dei surrogati quando ci si può abbeverare direttamente alla fonte?

Però non si può scaricare tutta la responsabilità dell'essere più o meno "bravi" sulle spalle degli allievi. Prima di accusarli di essere refrattari bisognerebbe attivarsi per ridurre il più possibile gli ostacoli che impediscono agli allievi di realizzarsi pienamente, poi, una volta accertato che è stato fatto il possibile per creare le condizioni ottimali per favorire la loro apertura mentale e la capacità di assumersi delle responsabilità, solo allora si potrà puntare il dito contro di loro.

A mio parere ci sono due questioni urgenti aperte che vanno affrontate al più presto.

La prima riguarda la capacità di essere un bravo insegnante di improvvisazione, capace di trasmettere la sua visione delle cose senza catechizzare, al fine di lasciare agli allievi la dovuta apertura mentale.

La seconda, legata indirettamente alla prima, riguarda l'abilità dell'insegnante di intervenire su quella folla di Amatori piantata nella fase del Relativismo. Questi Amatori rappresentano un enorme potenziale inespresso nel mondo dell'improvvisazione italiana. Se vogliamo far crescere il nostro mondo, dobbiamo trovare la maniera di liberare quelle energie.


lunedì 17 agosto 2020

Un Case Study: Suspects!

 


Provo a illustrare meglio i concetti espressi nei vari post scritti finora facendone una declinazione attraverso il Case Study di un format.

Spero che chi legge mi perdonerà se uso un format che ho sviluppato io: so che non è una cosa elegante, ma mi dà il vantaggio di sapere con precisione il perché di certi meccanismi, quali dinamiche volevo sollecitare con tali meccanismi, senza contare il fatto di avere assistito o partecipato a tutte le volte che è stato messo in scena.

Tale format è Suspects!



Suspects! è un format sul quale cominciai a ragionare attorno al 2004-2005, per poi riuscire a metterlo in scena un paio di anni dopo. A quel tempo il long form in Italia stava ancora muovendo i primi passi, mentre il mondo dell’improvvisazione, incentrato sul Match d’Improvvisazione Teatrale, era già entrato in una crisi che da lì a breve avrebbe creato la galassia di gruppi e format che oggi conosciamo.

Nel 2001 avevo visto ad Amsterdam Dan Goldstein creare una Sit-Com improvvisata che mi entusiamò pur essendo consapevole che in Italia ci fosse molto di più del piccolo giardino nel quale ci trastullavamo pensando che fosse l’intero mondo. Avevo già creato altri format, ma questa volta volevo puntare in alto, a qualcosa di veramente diverso, che fosse impensabile che potesse funzionare: un giallo improvvisato.

Il prodotto dopo vari tentativi fu accettabile, ma l’esperimento venne accantonato per vari motivi dopo un paio di repliche ed era già destinato a venire probabilmente dimenticato quando, attorno al 2012, Mavi Gianni, che era stata nel gruppo originale di Suspects! e assieme alla quale lavoravo - e lavoro tuttora - mi propose di rimetterci mano assieme.

Il risultato finale è stato che Suspects! è uno spettacolo che, tra alti e bassi, continua ad andare in scena da quasi una quindicina di anni e mi ha permesso di fare continue riflessioni su cosa sia per me l’improvvisazione e cosa sia importante o meno.


Dopo questa doverosa premessa cominciamo ad analizzarne i punti salienti.



1 – Il Genere


Il primo problema era come approcciarsi al genere del “Giallo”.

Una possibile fonte di ispirazione poteva essere il gioco Cluedo, ma questo era un gioco che già da ragazzino non mi entusiasmava e anche adesso lo trovo incentrato su quelli che ritengo essere gli elementi meno appassionanti di una storia.

In Cluedo, infatti, sappiamo chi è stato ucciso e dobbiamo scoprire tra gli indiziati Chi è stato, Dove Come.

Questi sono gli elementi importanti per cominciare a raccontare una storia, ma a me interessa il Perché: perché quella persona è stata ammazzata.

Ciò da cui volevo stare lontano era il “whodunit, il classico giallo che è un rompicapo dove bisogna stare attenti al “dettaglio fuori posto”, a quell’indizio che da solo smaschera l’assassino. L’improvvisazione è troppo complessa per gestire questo genere di dinamica senza diventare noiosa; una cosa è scrivere un copione stile Agatha Christie, altra cosa è improvvisarlo dal nulla.



2- Le Relazioni




Una volta chiarito che l’elemento cruciale del Giallo da creare dovesse essere il Perché dell’omicidio, diventava importante mostrare cosa avesse spinto l’assassino ad uccidere e per mostrare ciò era necessario mettere in secondo piano la narrazione dei fatti e portare, invece, in primo piano uno dei motori più importanti dei Perché: le Relazioni tra i personaggi.

Spesso gli improvvisatori concentrano la loro attenzione sulla parte più superficiale del termine Relazione; per esempio chiedono al pubblico una relazione per cominciare una scena e pensano che quel “Fratello e Sorella” suggerito esaurisca il discorso “Relazioni” e quindi passano a creare una “storia” che abbia a che fare con un fratello e una sorella.

Per Relazione tra i personaggi, io intendo la modalità con la quale il personaggio A reagisce al variare del personaggio B. 

Ad esempio il fratello può essere iperprotettivo verso la sorella, lei può nutrire sentimenti di rivalsa verso il fratello, possono essere complici oppure possono passare il loro tempo a farsi dispetti e così via. Ci sono infiniti modi di essere fratello e sorella, invece spesso chi fa improvvisazione confonde la Relazione con lo stato anagrafico dei personaggi.

Invece, ritengo che l’Improvvisazione eccella nel mettere in scena relazioni memorabili tra i personaggi. O meglio: lo farebbe se non ci mettessimo a perdere tempo col volere raccontare una storia.

In sostanza quello che desideravo era uno spettacolo di improvvisazione incentrato sulle relazioni tra i personaggi, uno spettacolo che mostrasse perché una persona fosse arrivata al punto di uccidere un’altra.

Vari tentativi sul numero degli attori chiarirono che ci dovevano essere una vittima e quattro indiziati. Se gli indiziati fossero stati di meno le relazioni non riuscivano a intrecciarsi tra loro in maniera soddisfacente, più di quattro, invece, sarebbero stati troppi e le relazioni, abbiamo riscontrato, tendevano a diventare superficiali. A questi cinque attori nel ruolo di Vittima e Indiziati se ne aggiunsero due nel ruolo di Poliziotti: dopotutto senza investigatori che giallo è?

3 – La Storia


A questo punto bisognava definire la struttura.

Normalmente il Giallo si sviluppa a partire dall’omicidio e si segue l’indagine, dove l’investigatore mette a poco a poco assieme tutti i pezzi del puzzle fino a quando non è in grado di identificare l’assassino.

Però così facendo si rischiava che lo spettacolo diventasse un’enorme chiacchierata nella quale gli attori cercavano a tentoni la strada verso la soluzione.

Un’alternativa poteva essere quella di improvvisare una serie di scene per chiarire chi fossero i personaggi e che relazioni ci fossero tra loro, per poi interrompere lo spettacolo verso i tre quarti del suo svolgimento per chiedere al pubblico chi avrebbe voluto che fosse l’assassino e da lì andare a concludere lo spettacolo, magari per vedere come sarebbe stato scoperto.

Tale situazione però per me non era assolutamente soddisfacente: volevo un giallo vero, dove l’assassino fosse già stabilito fin dall’inizio e che il pubblico dovesse indovinare.

Quindi come fare?

Semplicemente rovesciando la narrazione: si sarebbe cominciato col ritrovamento del corpo da parte della polizia e poi si sarebbero ricostruite le quarantotto ore precedenti alla morte della vittima, partendo dalla mattina, per poi proseguire fino al momento del delitto. La polizia avrebbe interrogato i vari indiziati e da ogni interrogatorio sarebbe scaturita una scena. Così, attraverso la messa in scena dei flashback, che avrebbero ricostruito la relazione dei vari personaggi con la vittima, si sarebbe arrivati a costruire la situazione che aveva portato all’omicidio consumato nella scena conclusiva della storia. Non bisognava più pensare alla storia, a costruire un’indagine: quello l’avrebbe fatto il pubblico. Gli attori dovevano semplicemente esplorare le relazioni tra i loro personaggi, vedere come si rapportavano gli uni con gli altri, restando così focalizzati su ciò che avevano in scena in quel momento, senza preoccuparsi di altro.

L’unico comando era “trovatevi un movente!”



4 – Il Controllo e le Autorità Narrative



Una volta stabilita la struttura della narrazione, si trattava di trovare la maniera di evitare che un qualsiasi singolo attore potesse incidere in maniera significativa sulla storia. Se nessuno avesse avuto la possibilità di controllare il risultato, gli attori avrebbero concentrato i loro sforzi sul fare delle belle scene e non sul raccontare quella che a loro parere sarebbe stata una “bella storia”. 

Inoltre quando le responsabilità sono distribuite in maniera omogenea si hanno meno possibilità che un eventuale sbaglio possa far naufragare tutto; anche se una singola parte può non essere andata come doveva, il danno rimane confinato.

Questa è una consapevolezza importante per gli improvvisatori, che spesso sopravvalutano la loro importanza nell’economia di uno spettacolo. Sapere che se si sbaglia ci sono maniere di assorbire il danno e magari rinforzare la struttura, fa improvvisare più rilassati del sapere che non si può sbagliare.

Quindi si trattava di distribuire le Autorità Narrative ovvero chi ha il diritto di dire cosa.

Come funziona questa distribuzione in Suspects!?

Il primo passo è stato quello di togliere agli attori il controllo su chi sia la vittima, facendola scegliere al pubblico. Il pubblico decide anche che il mestiere che fa e come è stata uccisa.

Il secondo è stato quello di sorteggiare in segreto il ruolo dell’assassino: tre pietruzze bianche e una nera, chi pesca la nera è il colpevole, ma nessuno degli altri lo sa fino alla fine dello spettacolo.

Una volta stabilito a chi tocca il ruolo della Vittima e del Colpevole, occorre togliere a quest’ultimo il potere di indirizzare troppo la storia: a questo ci penseranno i Poliziotti.

A inizio spettacolo gli indiziati sanno solo se sono colpevoli o innocenti, sono i Poliziotti a dare nome, cognome, professione al personaggio che stanno interrogando e a metterlo in relazione con la vittima durante il primo interrogatorio.

Non solo: i Poliziotti hanno anche il compito impostare la scena affermando, per esempio, che sanno che il giorno prima l’Indiziato era a pranzo fuori con la Vittima. A questo punto la Vittima entra in scena e improvvisa la scena del pranzo con l’Indiziato. Quando sente che la scena è esaurita uno dei due Poliziotti entra chiamando un altro indiziato per un nuovo interrogatorio e così via. I Poliziotti non sono coinvolti attivamente nelle scene, quindi da fuori possono vedere le potenzialità di sviluppo della narrazione e indirizzarla di conseguenza.

Anche il potere dei Poliziotti va contenuto, quindi non hanno la facoltà di stabilire di cosa  dovranno parlare i personaggi o cosa accadrà in scena, ma dovranno solo impostarla. In aggiunta sono posizionati ai due estremi del palco, si alternano a fare gli interrogatori e tra loro non possono comunicare.

C’è anche un altro elemento che toglie controllo e ridistribuisce le Autorità Narrative: i costumi.

I cinque attori che faranno Vittima, Colpevole e Indiziati sanno che dovranno andare in scena con dei costumi che possano ispirare i Poliziotti a dare loro un personaggio. I costumi infatti hanno il solo scopo di suggerire una tipologia di persona e ai Poliziotti spetta il compito di definirla. 

Ad esempio un completo giacca doppiopetto e cravatta potrebbe suggerire una tipologia di personaggio potente, ma se sarà un banchiere, un avvocato, un politico o un mafioso lo decide il Poliziotto che fa il primo interrogatorio.

Quindi ricapitolando:

  • Gli attori suggeriscono che tipo di personaggio vogliono impersonare, ma sono i Poliziotti a deciderlo.

  • Il pubblico decide la Vittima, che mestiere fa e come è stata uccisa.

  • La Sorte decide chi è il colpevole.

  • I Poliziotti impostano le scene e tengono il polso della scansione temporale, ma i contenuti di queste scene li decidono gli attori.

Questo perché Suspects! è una co-creazione: a tutti i partecipanti spetta il merito di ciò che verrà fatto, nessuno deve essere posto in una posizione di secondo piano né di eccessiva responsabilità o visibilità.


5 – Il Gioco


Suspects! racconta cosa ha portato a un omicidio e chiede al pubblico di indovinare chi lo ha commesso.

Le scene guidate dagli interrogatori si fermano poco prima dell’omicidio. A quel punto gli indiziati si dispongono sul palco, gli spettatori devono indicare chi pensano sia il Colpevole e quindi Colpevole e Vittima hanno una scena aggiuntiva dove mostrano come si è svolto l’omicidio.

Ma non è finita.

Dopo la scena dell’omicidio occorre sapere se il pubblico ha indovinato o meno, perciò si dà spazio al momento in cui gli indiziati mostrano la propria pietra e viene svelato il Colpevole che tiene un monologo finale a conclusione dello spettacolo.

Quindi Suspects! è sia uno spettacolo di improvvisazione che un gioco: uno spettacolo improvvisato che sfida il pubblico a indovinare chi ha commesso un omicidio.

Però Suspects! è anche un Gioco con la G maiuscola, un “facciamo che io ero” che riguarda solo gli improvvisatori.

Partiamo dai costumi: ogni attore è libero di scegliersi il costume con cui giocare, un qualcosa che lo ispiri. Questo non viene deciso prima, non ci si accorda sui costumi: ciascuno indossa ciò che preferisce. Dal punto di vista teatrale lasciare agli attori la libertà di decidere come vestirsi per una determinata serata o deciderlo prima non cambia niente, cambia tanto invece dal punto di vista del giocare. È un provocarsi a vicenda: io attore provoco te Poliziotto a darmi un certo tipo di personaggio, ma allo stesso tempo voglio essere sorpreso dalla tua scelta. Prima dello spettacolo, quando si vedono i rispettivi costumi, si creano delle aspettative, che poi possono venire confermate o disattese (“è il suo bello!” dicono alcuni attori).


Poi c’è la tensione del giocare per scoprire cosa succede. Nel caso di Suspects! si vuole sapere chi è l’assassino, ma questo “giocare per scoprire cosa succede” è il tratto comune a tutta la bella improvvisazione: sì c’è il pubblico, ok, ma IO voglio sapere cosa accade, è per questo che sono qui ora.

C’è il gioco del io so qualcosa che voi ignorate” che si gode solo chi ha pescato la pietruzza nera. Per lei o lui è come giocare all’Amico Del Giaguaro: non può palesarsi, ma non può neppure giocare come tutti gli altri. Fare il Colpevole a Suspects! è un po’ come farsi un corso accelerato per creare sfumature nei personaggi.

A riprova che Suspects! è un “facciamo che io ero” per adulti c’è quello che noi chiamiamo “l’Effetto Suspects. Cioè il fatto che nei giorni successivi la testa dei partecipanti (non solo la mia: ho chiesto anche agli altri) continua a tornare allo spettacolo, a ciò che è emerso dalla storia mentre si stava improvvisando, nel tentativo di spiegare le relazioni nate tra i personaggi, ordinandole in rapporti causa-effetto a posteriori o ripensando a ciò che un personaggio ha fatto o detto in una scena. Cioè, l’impatto di ciò che è stato improvvisato è così forte che la testa di chi ha partecipato continua ad elaborarlo anche nei giorni successivi.

Addirittura, a distanza di mesi da una messa in scena di Suspects! io e un’attrice continuiamo a sentire la mancanza di una scena tra i nostri rispettivi personaggi che noi sentivamo necessaria e che non è stata chiamata dai Poliziotti. Non è ego ferito, è un senso di perdita, dell’essersi persi qualcosa di memorabile, come quando i genitori venivano a prenderti prima del previsto e si era costretti a lasciare in anticipo un gioco che sentivamo essere epico. I nostri due personaggi erano la “razza padrona” di quella situazione e tra di loro non è stata chiamata dai Poliziotti neppure una scena. Lei ed io continuiamo a dire che il pubblico avrebbe voluto vedere quella scena (vi dice qualcosa?), ma la verità è che volevamo farla noi per il puro gusto di giocare!

Ora io sono sicuro che ciascuno di voi che leggete avete momenti simili o li avete avuti relativamente ai vostri spettacoli. Non è il solito “se avessi fatto” o “ se avessi detto” tipico degli improvvisatori che vogliono che le cose fossero andate come volevano loro, è il rimpianto per un momento di grazia negato. E questo sentimento lo danno il Gioco e l’Improvvisazione.


6 - La Serietà



Suspects! è un gioco e per questo è serissimo.

Visto che si parla comunque di qualcuno che è morto bisogna affrontare l’argomento con rispetto. Gli indiziati devono trovarsi nella situazione in cui la disperazione è tale che un omicidio diventa un’opzione da valutare. Allo stesso tempo la Vittima deve spingere al massimo le situazioni affinché gli altri trovino la forza di ucciderlo; dopotutto che morirà lo si sa fin dall’inizio, quindi perché trattenersi? Se deve morire che almeno sia per un motivo valido!

I momenti di alleggerimento spettano ai Poliziotti, a loro tocca portare personaggi sopra le righe per far rifiatare un po’ lo spettacolo se prende una piega troppo cupa. Con la loro leggerezza i Poliziotti permettono a tutti gli altri di affondare il colpo nelle scene.




Questo però non vuole dire che le scene debbano per forza essere “serie”: non lo sono quasi mai. Suspects! vuole essere un giallo brillante, dal quale il pubblico esca soddisfatto e alleggerito, non con ancora più pensieri di quando è entrato. Brillante, ma non sciocco.



Conclusioni



Spero che questa carrellata su Suspects! possa mostrare meglio come nel pensare uno spettacolo di improvvisazione entrino in gioco molteplici aspetti.

La struttura di Suspects! è molto più complicata da descrivere che da farsi e vuole rispondere a un semplice problema: come tenere gli attori nel Processo e allo stesso tempo raccontare una storia

La via scelta è stata quella di distribuire le autorità narrative in maniera tale che nessuno possa decidere autonomamente dove andrà la storia. Ogni attrice e ogni attore sono coinvolti per pochi minuti alla volta con obbiettivi chiari e raggiungibili in scena. Non devono raccontare chissà quale storia, solo reagire onestamente a ciò che accade. Però col proseguire dello spettacolo prosegue, gli attori acquisiscono informazioni sui loro personaggi, sulle loro motivazioni e sulla rete di relazioni che li circonda e imprigiona e questo permette loro una sempre maggiore duttilità in scena mentre la situazione precipita sempre di più. Solo quando si è arrivati alle battute finali ci si può voltare indietro e vedere la storia che si è costruita assieme.

Questo è il senso di parlare di "raccontare una storia" nell'improvvisazione: partire da niente, stare nel Processo e poter scoprire solo al termine quale storia è stata consegnata al pubblico.

Suspects! a me ha donato un'ulteriore epifania sull'improvvisazione.

È il senso di compiutezza degli attori al termine che stabilisce quanto uno spettacolo è andato bene. Quella sensazione di  avere partecipato a qualcosa di epico, di avere creato qualcosa assieme ai propri compagni, di comunione con essi; quello che poco sopra ho chiamato "Effetto Suspects!". Da uno spettacolo di improvvisazione riuscito se ne esce sempre differenti da come ci si è entrati, altrimenti non è uno spettacolo riuscito.



Suspects! non è lo Spettacolo Definitivo, quello che definisce un nuovo standard dell’Improvvisazione. È uno spettacolo tra i tanti che vengono messi in scena in giro per il Mondo. Però è lo spettacolo a cui noi siamo affezionati perché ci ha regalato tantissime epifanie in scena, tanti personaggi memorabili e numerosi momenti di puro divertimento.

Quello che mi sorprende ancora è quanto il suo design sia funzionale al risultato che volevo ottenere e quanto robusto sia tale design.

Molte scelte furono fatte ad istinto, altre acquisirono un senso dopo anni, altre ancora sono state eliminate perché non soddisfacevano ciò che Mavi ed io volevamo fosse Suspects!.

Continuiamo a lavorarci, a sperimentare, a introdurre piccole modifiche per vedere cosa succede. Noi cresciamo e lo spettacolo cresce con noi, aggiornandosi costantemente con le nostre scoperte: il lavoro su Suspects! non è mai terminato, solo a volte sospeso per un po’.

Sono sicuro che ognuno di voi che legge ha il suo Suspects!, lo spettacolo che riflette la sua visione dell’Improvvisazione Teatrale.

Dateci sotto e in bocca al lupo!


Il minimo sindacale

  Quando iniziai a scrivere qui mi ripromisi che avrei scritto soltanto se avessi avuto qualcosa di intelligente da dire e non per generare ...