lunedì 31 agosto 2020

Improvvisazione e Politica - Ancora sugli spettacoli politici

 



Il post precedente l'ho concluso chiedendomi come si potesse fare uno spettacolo politico di improvvisazione che non fosse uno pura propaganda o un dramma a tesi e che , al tempo stesso, riuscisse a mantenere la freschezza dell'improvvisazione.

Per cercare di rispondere riprendo Il Maestro Ignorante (di cui ho brevemente parlato qui) e la sua tesi sul rapporto tra spiegazione e abbrutimento.

Infatti l'abbrutimento generato a lezione dalla spiegazione e dalla volontà che l'allievo comprenda lo si può ritrovare uguale nel rapporto tra gli artisti e il loro pubblico (ed all'origine di tanta pessima arte): quando uno spettacolo vuole dare una lezione morale, significa che l'artista è salito su un piedistallo e si sente su un piano superiore rispetto agli spettatori. Paradossalmente questo artista vuole smuoverci affinché combattiamo le disuguaglianze del mondo ponendosi lui per primo in una posizione di disuguaglianza rispetto a noi.

Pur senza voler mandare un messaggio politico anche noi improvvisatori non sfuggiamo a questo paradosso.

Infatti, troppo spesso vogliamo che il pubblico comprenda la scena che stiamo facendo, che veda proprio quella storia che stiamo costruendo davanti ai suoi occhi e che tragga proprio le conclusioni che noi vogliamo fargli trarre. 

Questo è il significato più profondo di quando diciamo: "il pubblico vuole vedere storie". In verità ciò che intendiamo veramente è "io voglio che il pubblico veda la storia che ho in mente e che l'apprezzi". Io, improvvisatore, sono colui che sa cosa è meglio per il pubblico.

Questo altro non è che Volontà di Controllo unita all'Illusione di Potere.

In realtà il significato di uno spettacolo di improvvisazione, il suo messaggio, è assolutamente preterintenzionale: va al di là della volontà degli improvvisatori.

Infatti, così come ogni improvvisatore porta in scena il proprio vissuto e le proprie esperienze e le confronta con quelle dei suoi compagni in scena, allo stesso modo ciascun spettatore porta a teatro il proprio vissuto e decodificherà ciò a cui sta assistendo attraverso questa lente.

In gioco, quando si improvvisa, non ci sono solo le menti dei compagni in gioco, ma anche quelle degli spettatori. Non sottovalutiamo l'intelligenza degli spettatori: quando diciamo che dobbiamo fare risplendere i nostri compagni, in quel "nostri compagni" dobbiamo includere anche gli spettatori. Altrimenti significa che noi li consideriamo solo vacche da mungere e di loro ci interessa esclusivamente che acquistino i biglietti e tornino a vederci, stiamo cioè creando di nuovo disuguaglianza.

Se non accettiamo l'idea che, proprio mentre noi stiamo collegando tra loro concetti e idee per creare la "storia", ogni singolo spettatore stia facendo la stessa cosa creando connessioni tra ciò che vede e le proprie esperienze per farsi la sua storia, ci stiamo perdendo un pezzo. 

Quindi è inutile sforzarsi: improvvisare è stare nel momento, reagire onestamente a ciò che accade e accettare il fatto che sarà il pubblico, con la sensibilità di ogni singolo spettatore nei confronti di determinati aspetti dell'argomento trattato, a trarre da solo  un insegnamento e scoprire la morale della storia.

Quindi tutto è perduto?

Non proprio: non possiamo arrogarci il diritto di decidere quali conclusioni gli spettatori debbano trarre dai nostri spettacoli, ma il diritto su cosa e quali strumenti usare per farli arrivare ad una riflessione, sì. L'obbiettivo, ripeto, non può essere quello di "mandare un messaggio", ma quello di fare della buona improvvisazione, restando nel momento e reagendo onestamente a ciò che accade.

Sottolineo che bisogna anche sentirsi liberi di fare spettacoli di improvvisazione che non vogliano avere impegno politico alcuno: nessun altro obbiettivo al di fuori di quello di divertire il pubblico. D'altra parte però se dagli spettacoli dovessero uscire spontaneamente dei contenuti politici, allora questi vanno esplorati e non censurati.


IMPROMASK



Il mio tentativo più riuscito di fare uno spettacolo politico in grado di soddisfare i criteri precedentemente esposti è sicuramente Impromask.

L'idea venne a Mavi Gianni e me tornando da un workshop sulla maschera neutra a Monghidoro, nel 2014 o giù di lì. Avevamo maturato la consapevolezza di quanto il lavoro sulla maschera potesse essere utile agli improvvisatori e - all'ennesimo tornante - ci venne l'idea di creare un long form con le maschere.

Entrambi avevamo già avuto esperienze con l'uso della maschera e avevamo partecipato a qualche spettacolo di Commedia Dell'Arte, ma fino a quel momento non avevamo connesso l'improvvisazione teatrale, cui eravamo abituati, all'uso estensivo della maschera.

Ero a conoscenza della Trancemask, pur non avendo seguito alcun workshop avevo letto la parte che Keith Johnstone dedicata a quest'argomento nel suo libro, ma, per quanto utile e stimolante, era un percorso che non mi interessava: a me interessava maggiormente l'uso "classico" della maschera.

Per rendere Impromask uno spettacolo politico ci siamo ispirati più alla Commedia Dell'Arte che all'improvvisazione come noi la concepiamo oggi. Nel senso che ciò che mi intrigava era la maniera in cui ogni maschera della Commedia rispecchiasse una determinata classe sociale. Sia chiaro: gli attori del '500 non creavano spettacoli con intenti politici, a loro interessava intrattenere il pubblico perché, se non ci fossero riusciti, non avrebbero avuto da mangiare. Ma ho scoperto che alcune delle caratteristiche della Commedia dell'Arte possono essere usate per creare un'improvvisazione politica.

La prima cosa che prendemmo dalla Commedia dell'Arte fu la rappresentazione delle varie classi sociali attraverso le maschere. 

Eravamo consapevoli che col tempo la maniera in cui ci rapportiamo a questo tipo di rappresentazione  è radicalmente cambiata: mentre il pubblico della Commedia si riconosceva nelle varie maschere oggi, invece, nelle maschere riconosciamo il nostro vicino. Decidemmo ugualmente che in Impromask ogni maschera da noi concepita avrebbe rappresentato una classe sociale o comunque una tipologia ben conosciuta di personaggi dei nostri giorni. Magari gli spettatori non avrebbero riflettuto sulla propria posizione, ma su quello che accadeva intorno a loro probabilmente sì.

Passammo così un anno dove a lezioni sull'uso della maschera tenute da Fabio Mangolini, a cui affidammo anche la regia dello spettacolo, si affiancavano incontri  dove discutevamo tra di noi e creavamo le maschere del nostro spettacolo. Alla fine arrivammo a individuare una dozzina di maschere per noi rappresentative della nostra realtà contemporanea che andavano dall'"Immigrato" al "Marchionni" passando per figure come la "Madre", il "Pidocchio Arricchito", l'"Arrampicatrice Sociale", l'"Incazzato Sociale", il "Precario"e così via. 

Per chi non lo sapesse, uno degli elementi più importanti delle maschere è che mentre tra uno spettacolo e l'altro è possibile variare i ruoli loro assegnati, le relazioni tra le varie maschere non cambiano mai. Le maschere si distribuiscono tra di loro le gerarchie di potere e gli attori che le indossano possono solo rispettarle: possiamo fare del Precario un generale, ma la sua relazione con l'Incazzato Sociale, fosse anche questi un suo subordinato, non cambia.

Quindi Impromask ci ha permesso di presentare al pubblico l'idea che anche se le situazioni cambiano i rapporti di potere restano sempre gli stessi. Che si ambientino le storie in un ospedale, in un ufficio, in un Parlamento o chissà dove, a comandare veramente sono sempre le stesse maschere, la stessa tipologia di persone.



L'esperienza di Mangolini ci ha permesso anche di attingere ad un altro aspetto della Commedia Dell'Arte: solitamente la situazione, all'apertura di uno scenario di Commedia Dell'Arte, è quella di un equilibrio instabile che l'arrivo di uno "straniero" (spesso il Capitano) fa precipitare. Tutti cercano di trarre vantaggio dai nuovi equilibri regolando conti in sospeso, ordendo i propri complotti e finendo vittima di quelli altrui.

Impromask si apre più o meno nella stessa maniera: il pubblico stabilisce dove verrà ambientata la storia, poi gli attori creano una instabile situazione iniziale e l'arrivo di un "forestiero" la fa saltare.

Però, a differenza della Commedia dell'Arte, il finale è aperto. Le maschere improvvisano, ciascuna secondo il proprio punto di vista e i propri obbiettivi.

Sul fatto che ogni attore dovrebbe avere l'uso della maschera come parte del suo bagaglio ho già scritto qui. Mi limito a sottolineare qualche altro aspetto che aiuta a comprendere come Impromask sia uno spettacolo politico senza diventare un dramma a tesi o perdere di brio:

1- Ogni maschera è un punto di vista sul mondo.

Non c'è una maniera prestabilita di portare in scena una maschera. Una maschera è solo una scultura. Ogni attore deve trovare la chiave affinché quella scultura prenda vita e non sia solo un oggetto sul viso dell'attore. E la maschera prende vita quando l'attore riesce a capire come quella maschera respira. Nell'istante successivo in cui si comprende questo respiro, l'attore capisce come quella maschera vede il mondo. Per quanto questo sembri un discorso iniziatico, il lavoro sulla maschera è una della cose più concrete che abbia fatto nella mia esperienza teatrale. Ogni maschera agisce coerentemente con quello che è il suo punto di vista sul mondo, non lo fa per mandare un messaggio. Vedere come agisce una maschera significa vedere come agiscono determinati punti di vista. Ogni persona, anche la più malvagia, ha le sue motivazioni per agire come agisce. Le maschere ci aiutano a capire queste motivazioni, ci fanno uscire dall'illusione adolescenziale dei "buoni contro i cattivi" per permetterci di dare una sbirciata nella complessità della realtà. Solo una volta che abbiamo conosciuto i punti punti di vista dei vari personaggi possiamo dire cosa condividiamo e cosa rifiutiamo. Perciò il lavoro "politico" non è tanto nel pensare a cosa far dire o decidere alle varie maschere, ma nello stabilire a monte un punto di vista che possa far riflettere gli spettatori.

2 - Le maschere agiscono per estremi.

Nell'azione delle maschere non c'è molto spazio per le mezze misure: sono in grado di passare da un'emozione al suo opposto in un battito di ciglia. Questo non significa che non ci possono essere sfumature nelle emozioni, ma che non ci sono ambiguità. Agli spettatori è sempre chiaro ciò che in quel momento passa per la testa della maschera.

3 - La maschera non mente

O l'attore fa muovere la maschera coerentemente con il suo Punto di Vista o in un istante diventa una persona su un palco con qualcosa in faccia, la bellezza e la difficoltà del lavoro con la maschera stanno proprio in questo. Non è possibile costringere la maschera a fare qualcosa che non voglia. Si può esitare solo se la maschera esita, tergiversare solo se la maschera tergiversa. Questo vuole dire che quando s'indossa la maschera l'azione è continua.

Il fatto che le maschere costringano gli attori ad agire senza tergiversare e che agiscano per estremi fa sì che le scene con le maschere siano sempre appassionanti. In scena le maschere sono sempre alla ricerca della Felicità o in fuga dalla Morte, quando non stanno facendo tutte e due le cose contemporaneamente.




Alla luce di quanto esposto penso di poter affermare che Impromask soddisfa le condizioni che avevo posto in apertura di questo articolo:

1 - Non è uno spettacolo di propaganda o un dramma a tesi.

Quello che viene mostrato agli spettatori è il modo in cui le dinamiche del potere si ripresentino sempre uguali anche se i contesti cambiano. L'uso delle maschere da un lato aiuta a identificare i ruoli e dall'altro semplifica tali dinamiche e le rende più fruibili.

2 - La freschezza dell'improvvisazione viene mantenuta.

Non c'è un canovaccio prefissato. La prima parte dello spettacolo è pensata proprio per fare precipitare la situazione lasciando gli attori liberi di esplorarla. Chiaramente sono costretti all'interno delle maschere, ma questa costrizione è palese.


Il fine di Impromask non è quello di dire agli spettatori chi sono i buoni e i cattivi di una storia e di dare loro una morale. Il fine è fare della buona improvvisazione utilizzando le maschere. Saranno poi gli spettatori a confrontare ciò  che è accaduto in scena con il proprio vissuto e a trarre le dovute conclusioni, se vogliono.

Quello che volevamo fare all'origine era esplorare cosa accade quando si fa improvvisazione indossando delle maschere. Il criterio che abbiamo usato per decidere quali nuove maschere creare, cioè quello di rifarci a figure archetipali della società contemporanea, hanno reso Impromask uno spettacolo "politico", ma avremmo anche potuto decidere altrimenti.

Quindi ritengo assolutamente possibile realizzare uno spettacolo di improvvisazione "politico" che non sia propaganda o un dramma a tesi.

Anzi vi invito a farlo, a crearlo, anche se non siete interessati alla Politica, perché uno spettacolo simile pone una serie di sfide che, una volta superate, vi aiuteranno a capire meglio come funziona l'improvvisazione. Non tanto nei suoi aspetti "politici", ma in quelli pratici, non rispetto a cosa funziona o non funziona in scena, ma rispetto a cosa faccia funzionare o meno una scena

Provateci. 



Nessun commento:

Posta un commento

Il minimo sindacale

  Quando iniziai a scrivere qui mi ripromisi che avrei scritto soltanto se avessi avuto qualcosa di intelligente da dire e non per generare ...