lunedì 24 agosto 2020

Il Maestro Ignorante

 



Qualche giorno fa ho posto alcune questioni su come insegnare improvvisazione senza catechizzare e su come rendere più attiva quella folla di improvvisatori che definiamo Amatori per sbloccarne il potenziale inespresso.

Tali questioni sono direttamente legate alla natura di com'è organizzata l'improvvisazione in Italia, un'organizzazione che comporta sia vantaggi che svantaggi.

Sicuramente un vantaggio è quello di fornire una formazione, solitamente triennale, che copre a tutto tondo gli aspetti legati all'improvvisazione e questo aspetto non va sottovalutato o sminuito, oltre ad offrire - attraverso raduni, festival e raduni - una vasta e variegata opportunità di ulteriore formazione.

Lo svantaggio è quello di creare orde di attori sì formati, ma ancora legati a doppio filo alla propria scuola: gli Amatori.

A prima vista quella degli Amatori è una situazione win-win.

Le scuole di improvvisazione si garantiscono un bacino di attori che, pur avendo terminato i corsi, continuando a seguire ulteriori corsi, workshop e partecipando a titolo gratuito agli spettacoli, fornisce un contributo sostanziale ai bilanci di tali associazioni. Dall'altra parte, gli Amatori hanno, invece, la possibilità di ricevere formazione a un prezzo calmierato e di partecipare a spettacoli, soddisfacendo così la propria passione senza eccessivo impegno.

Però questa situazione fa anche sì che questi Amatori non percepiscano se stessi come attori formati, ma continuino a vedersi come allievi, come "pulcini bagnati" bisognosi della mamma e incapaci di usare in autonomia le competenze apprese.

Sia chiaro: la Formazione deve essere continua in ogni campo dell'esperienza umana e nessuno può credere di non avere più bisogno di apprendere cose nuove, specialmente nell'Improvvisazione. 

Ma il caso degli Amatori è diverso. Qui parliamo di persone che, per esempio, pur avendo ricevuto una formazione continuativa di magari cinque-sei anni, arricchita da stages e laboratori, non si ritiene ancora all'altezza di immaginare un proprio format di improvvisazione o di proporre un workshop ad altri improvvisatori.

Senza dilungarmi troppo, vi rimando a questo interessante post di Davide Scarafile, che magari alcuni di voi già conoscono, e che tratta in maniera approfondita la questione.

Per carità, questa situazione non è limitata al solo mondo dell'improvvisazione, David Mamet nel saggio I Tre Usi Del Coltello punta il dito sugli attori usciti dalle scuole di teatro e a suo parere afflitti dalla stessa sindrome, ma questo è il nostro mondo e a noi tocca intervenire.

David Mamet

Penso che la parola chiave che a tutt'oggi manca all'Improvvisazione italiana e che invece la completerebbe sia emancipazione, cioè la capacità di far uscire le persone da uno stato di sudditanza.

Paradossalmente l'improvvisazione è un potentissimo strumento emancipativo: toglie l'attore dalla schiavitù del testo, l'atto creativo dalla censura, annulla differenze di genere, di età, di cultura.

Solo che il sistema che si è creato negli anni è un sistema che invece di emancipare, tende ad assoggettare, insegnando implicitamente che per improvvisare bisogna essere "bravi" e che gli allievi "bravi" difficilmente lo saranno; ci sono troppe cose da sapere: meccanismi comici, drammaturgia, regia, uso della voce, uso del corpo, eccetera. Ma anche se le padroneggiassero, ci sarebbero ancora quelli "bravi" che volano in cieli più alti dei loro, quindi quello che veramente si impara è che non si è mai pronti. O almeno Tu non sei mai pronto abbastanza.


A questo punto, per ribaltare il tavolo, mi rivolgo al filosofo Jacques Rancière e al suo Il Maestro Ignorante.

Questo è un libro parecchio denso che parla di pedagogia, politica ed emancipazione e che si presta bene ad analizzare le difficoltà di insegnare improvvisazione.

Jacques Rancière

Il libro parte dall'esperienza reale di tale Jacotot che, ai primi dell'800, si trovò a dover insegnare Francese a una classe di olandesi in Olanda senza che lui parlasse il fiammingo e francese i suoi allievi. Disperato, trovò un'edizione bilingue di una rivista, in fiammingo e francese e disse ai suoi allievi di imparare il testo francese servendosi della traduzione.

Con sorpresa scoprì che gli allievi avevano imparato il francese ben oltre le sue aspettative e senza che lui avesse insegnato loro alcunché.

Le molteplici conclusioni che Rancière trae da questa vicenda e dai suoi sviluppi possono tornare utili a noi che insegniamo improvvisazione.

1 - Bisogna rovesciare il sistema della spiegazione. 

Spiegare qualcosa a qualcuno significa innanzitutto dimostrargli che non può comprendere da solo. E già questo mette l'allievo in uno stato di inferiorità, mentre è chi spiega ad avere bisogno dell'incapace, non viceversa.

Per esempio quante volte ho visto spiegare come andava fatta la scena, invece di limitarsi ad analizzare quello che era stato fatto? Ho visto anche insegnanti entrare nelle scene dei loro allievi per forzarle ad andare nella direzione che loro ritenevano corretta.

2 - Apprendere e Comprendere sono due cose diverse.

Tutti possiamo apprendere da soli, lo facciamo per esempio quando impariamo a parlare: apprendere è avanzare a tastoni, dando valore alle nostre esperienze. Invece per comprendere abbiamo bisogno di qualcuno che le cose ce le spieghi.

Gli allievi potrebbero semplicemente apprendere l'improvvisazione agendola e imparando da ciò che hanno fatto, ma noi vogliamo che la comprendano. 

E per farla comprendere gliela dobbiamo spiegare.

Questo significa che stiamo accettando l'idea che sia l'intelligenza dell'insegnante a permettere la trasmissione di queste conoscenze, adattandole all'intelligenza dell'allievo e andando a verificare che questi abbia ben compreso ciò che ha appreso. Rancière definisce questo come il meccanismo dell'abbrutimento: comprendere che non si comprende se non ci viene spiegato. Attenzione a non credere che il Maestro Abbruttente sia solo quello che a scuola detestavate e che usava metodi ottocenteschi. Spesso è proprio quello che ammirate, quello che si sforza proprio perché le cose le comprendiate.

3 - Apprendere deve diventare un gioco a tre.

Gli studenti di Jacotot avevano appreso senza le sue spiegazioni, ma non senza di lui. Quindi qualcosa aveva insegnato. Non aveva insegnato loro la sua scienza, aveva insegnato "togliendosi di mezzo", lasciandoli da soli a confrontare la propria intelligenza con quella del libro. La volontà dell'insegnante non aveva più fatto coppia con la propria intelligenza,  ma con quella del libro. Con quella si erano confrontate le intelligenze e le volontà di apprendere degli allievi. Qui si era rovesciato il paradigma.

Venendo al caso nostro: bisogna superare la visione del "vi faccio fare questo esercizio così capite questo concetto" per passare a un "metto alla prova la vostra capacità con questo esercizio: cosa avete appreso?".

Non c'è bisogno di spiegare le tappe del Viaggio dell'Eroe e poi farlo fare, basta tenere gli attori nel presente mentre fanno la scena e vedere quello che esce. Poi saranno loro stessi i giudici del loro operato, senza dovere cercare l'approvazione del docente per sapere se hanno fatto bene o male.

A noi docenti spetta il compito di proporre gli esercizi e di verificare che gli allievi seguano il comando dell'esercizio, ma non spetta a noi decidere cosa l'allievo abbia appreso o meno dall'esercizio.

Ciò che va verificato è la volontà di apprendere dell'allievo, perché è quella ciò che muove tutto. 

L'esercizio diventa così un ponte: unisce allievi e insegnante, ma conserva anche una distanza. 

La prima distanza è quella tra docente e allievi: ho già parlato dei rischi di identificare alcuni insegnanti come Guru dai quali abbeverarsi per soddisfare la propria sete di sapere: cos'è questo se non un abbrutimento? Riconoscere che non si è capaci di trovare da soli le risposte, ma che bisogna affidarsi completamente a qualcuno?

L'altra distanza è quella tra l'allievo e il docente.

Se il maestro riconosce che non ha nulla da insegnare riguardo l'esercizio, quest'ultimo mantiene una distanza tra uguali intelligenze. Ciascuna agisce, verifica ciò che fa e fornisce i mezzi per verificare la sua azione. La spiegazione annulla invece questa distanza: uno non può comprendere se l'altro non va da lui a spiegare.

Ma c'è di più.

Quando si spiega si fissa una distanza tra la materia insegnata e l'allievo da istruire ed è il maestro che fissa questa distanza. Qualora questa distanza si riducesse a zero, il maestro non avrebbe più nulla da insegnare. Ma nella logica dell'abbrutimento l'Allievo non ha strumenti per quantificare questa distanza, una cosa così importante rimane appannaggio esclusivo del docente.

E questo in buona parte è ciò che tiene gli Amatori nel loro limbo: non sanno dove stia la padronanza della materia, sanno solo che devono colmare la distanza tra sé stessi e quella padronanza. Avanzano alla cieca cercando di arrivare a quella tartaruga che neppure Achille riuscì a raggiungere.

Chiaro che siano restii a mettersi a rischio: è come se si trovassero in una stanza buia le cui pareti si spostano appena pensano di avere capito dove sono.

Per emancipare gli Amatori bisogna costringerli a usare la propria intelligenza, per capirne le capacità e quindi decidere come usarle. Non è detto che debbano per forza fare sfracelli, ma prendere coscienza che sono loro stessi a determinare l'importanza di quelle pareti nella stanza buia, questo sì. 

E per farlo bisogna togliersi di mezzo: non più far comprendere, ma far apprendere. Gli improvvisatori hanno bisogno di Maestri Emancipatori: docenti che insegnino agli allievi che non hanno nulla da insegnare. Che insegnino a non avere bisogno di dipendere da persone che spieghino loro come vanno fatte le cose. Questo non significa che non ci sia bisogno dei docenti, significa che c'è bisogno di docenti che facciano sì che gli allievi apprendano grazie a loro, non attraverso di loro.

I famigerati docenti "cui dare fuoco" di cui scrissi sono la negazione di questi concetti: producono abbrutimento e se ne vantano pure. Al momento in cui scrivo la benzina è a 1,44 euro al litro.

Ovviamente nel libro c'è molto altro, ma penso che per il momento ciò che ho brevemente riassunto sia più che sufficiente. Ora bisogna vedere come questi concetti possono essere messi in pratica.

Anche perché questi stessi concetti di abbrutimento ed emancipazione possono venire estesi anche agli spettacoli.


Vi lascio con ciò  che Rancière scrive dell'improvvisazione.

"Improvvisare è, lo sappiamo, uno degli esercizi canonici dell'insegnamento universale. Ma è innanzitutto l'esercizio della virtù primaria della nostra intelligenza: la virtù poetica. L'impossibilità in cui ci troviamo di dire la verità, quand'anche la sentissimo, ci fa parlare da poeti, raccontare le avventure della nostra mente e verificare che esse siano comprese da altri avventurieri, ci fa comunicare il nostro sentire e ce lo fa vedere condiviso da altri esseri senzienti. L'improvvisazione è l'esercizio mercé il quale l'essere umano si conosce e si conferma nella propria natura di essere ragionevole, cioè di animale che "che fabbrica dei vocaboli, delle figure, dei paragoni per raccontare ciò che pensa ai suoi simili". La virtù della nostra intelligenza è meno quella di sapere che quella di fare. Sapere è nulla, fare è tutto."



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